Zelmar Michelini

Pubblicata il 22 maggio 2020 – il manifesto
Intervista a – Zelmar Michelini
Scritta da Elena Basso, video realizzato da Marco Mastrandrea

Dal 1996 c’è un giorno in cui l’Uruguay si ferma. Non si parla, non ci sono rumori in città, si sentono solo i passi di migliaia di persone che marciano nel più totale silenzio. I cittadini si riversano nelle strade di Montevideo e sfilano reggendo tra le braccia una foto in bianco e nero e margherite: è la Marcia del Silenzio, che si tiene ogni 20 maggio da oltre 25 anni per chiedere verità e giustizia per i desaparecidos della dittatura uruguaiana.

È stato scelto questo giorno per l’anniversario dell’assassinio dell’ex senatore uruguaiano Zelmar Michelini, sequestrato il 18 maggio del 1976 a Buenos Aires insieme all’ex presidente della Camera dei deputati Hector Gutiérrez Ruiz e ai militanti Rosario del Carmen Barredo e William Whitelaw Blanco. I loro cadaveri sono stati rinvenuti due giorni dopo nella capitale argentina. Fra chi non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per le vittime della dittatura uruguaiana c’è Zelmar Michelini – figlio dell’ex senatore di cui porta il nome – 66 anni, membro fondatore di Dónde están?, associazione organizzatrice della Marcia.

Qual è la storia di tuo padre Zelmar Michelini?

Mio padre ha avuto una lunga carriera politica in Uruguay, prima è stato sindacalista, poi deputato, ministro e senatore. Dal ’67 fino al ’73 è stato il principale oppositore delle forze armate, denunciando costantemente l’uso della tortura sui cittadini. Ogni giorno riportava alle Camere le testimonianze dei detenuti e per queste denunce i militari lo avevano già condannato a morte. Molti sopravvissuti alle torture sono poi andati in Senato per recapitargli il messaggio dei militari: «Se continui così ti ammazziamo».

Qual era in quegli anni la situazione in Uruguay?

Nel dicembre del 1967 Jorge Pacheco Areco è diventato presidente del Paese e l’Uruguay ha smesso di essere uno stato di diritto. Non c’era ancora la dittatura, ma è cominciato il periodo della cosiddetta dictablanda: un regime nel quale il potere esecutivo violava costantemente la Costituzione, governava con uno stato di emergenza permanente, deteneva leader sindacali e studenteschi, censurava la stampa, perseguitava i partiti politici di sinistra. Nel 1968 il governo ha represso in modo sanguinario le proteste del movimento studentesco suscitando molta indignazione. E come conseguenza la gioventù del Paese si è radicalizzata e molti di loro hanno impugnato le armi contro il governo. Per sopprimere la guerriglia le forze armate hanno cominciato ad applicare sistematicamente la tortura. Inizialmente per ottenere informazioni dai detenuti, dopo con l’unico scopo di terrorizzare la popolazione. Così sono iniziati gli anni del terrorismo di stato in Uruguay. La dictablanda è andata avanti fino al golpe di Juan María Bordaberry con cui si è ufficialmente instaurata la dittatura militare.

E dopo il golpe cosa è accaduto?

Mio padre è stato costretto a rifugiarsi a Buenos Aires, dove vivevamo sotto sorveglianza all’hotel Liberty. In quegli anni mio padre ha continuato a denunciare ciò che avveniva in Uruguay e ad aiutare i connazionali che si trovavano in difficoltà. A un certo punto ha ricevuto un invito dall’Italia: era Lelio Basso che gli chiedeva di partecipare al Tribunale Russel II. Il Tribunale Russel – tribunale di opinione fondato da Bertrand Russel e Jean-Paul Sartre nel 1966 – si era in precedenza occupato della guerra in Vietman ottenendo un grandissimo impatto a livello internazionale. Si era quindi deciso di creare un secondo tribunale che indagasse sulla situazione sudamericana. Mio padre accettò l’invito e il suo è stato il primo discorso ufficiale sulla dittatura in Uruguay. Prima di andare a Roma lo ripeteva ogni notte, tanto che a un certo punto ho detto: «Prima mi addormentavo con mia mamma che cantava canzoni per bambini e ora lo faccio ascoltando mio padre che ripete il discorso per il Tribunale Russel».

Qual è stato l’impatto di quel discorso?

È stato enorme, soprattutto a livello internazionale. Per questo il clima intorno a lui è diventato sempre più ostile e pericoloso. Anche perché le forze armate potevano esercitare una forte pressione su mio padre: nel 1972 mia sorella maggiore, Elisa, era stata sequestrata ed era detenuta. Elisa aveva 20 anni, era una militante Tupamaros, ma non era certo una figura importante. Era stata sequestrata con accuse false con il solo scopo di fare pressione su mio padre. Quando è tornato da Roma ha ricevuto una chiamata, dall’altro capo del telefono una minaccia: «Finora non abbiamo toccato tua figlia, ma se rifai qualcosa di simile cominciamo a torturarla. Possiamo rendere impossibile la sua vita». E così mio padre si è trovato di fronte a un dilemma: continuare o tacere per il bene di sua figlia. Lui ha deciso di continuare, era un rappresentante del popolo uruguaiano e non poteva venire meno al suo mandato. Anche in quelle circostanze. Nel 1975 ha scritto una lettera a un professore canadese in cui denunciava nuovamente le violazioni dei diritti umani che avvenivano in Uruguay. Un giorno nella stanza dell’hotel dove vivevamo l’ho visto piangere per la prima volta in mia. Mi ha guardato e mi ha detto: «Stanno torturando Elisa».

Qual era la situazione in Argentina?

Alla fine del 1975 la situazione era molto tesa. Mancavano pochi mesi al colpo di stato del 24 marzo 1976. Il 18 maggio del 1976, due mesi dopo il golpe, mio padre è stato sequestrato, insieme all’ex presidente della camera dei deputati Hector Gutiérrez Ruiz e a due giovani militanti Tupamaros Rosario del Carmen Barredo e William Whitelaw Blanco. Il 20 maggio hanno ritrovato i loro corpi a Buenos Aires. Dopo il golpe moltissime persone hanno consigliato a mio padre di lasciare l’Argentina: la sua vita era davvero in pericolo. Ma mio padre ha rifiutato e io ho sempre pensato che su questa decisione abbia influito il fatto che mia sorella fosse detenuta. Ho sempre creduto che nel momento decisivo abbia pensato: «Non posso aver sacrificato la salute di mia figlia, per poi andarmene nel momento in cui a essere in gioco è la mia vita». E così è rimasto.