L’ambasciata italiana – Intervista a Enrico Calamai

L’ambasciata italiana
Intervista a – Enrico Calamai
scritta da Elena Basso, video di Marco Mastrandrea

Ha la faccia dei buoni e quando sorride colpisce subito la sensazione di calma e serenità che emana. Gli occhi sono profondi e sono quelli di chi ha vissuto in un momento storico difficile e ha scelto di aiutare salvando quante più vite umane fosse possibile, a rischio persino della propria. Enrico Calamai nel 1972 aveva 27 anni ed era stato inviato come vice console a Buenos Aires. Non lo sapeva ma si sarebbe trovato nel mezzo di due colpi di Stato in Cile e in Argentina. Calamai allora ha deciso salvare quante più vite poteva: oltre 300 persone oggi sono vive grazie a lui.

Quando sei partito per l’Argentina?
Era l’ottobre del 1972, avevo 27 anni. In Argentina in quegli anni c’era il governo militare di Alejandro Agustín Lanusse e si percepiva un grande fermento, soprattutto della gioventù, per rompere l’ingessatura sociale e politica che permeava il Paese  per aprirsi a una democrazia di stampo occidentale. Era subito dopo il ’68 e c’era stata la rivoluzione cubana; la miseria era molto diffusa in tutta l’America Latina e si lottava per creare uno stato sociale che garantisse sicurezza sul lavoro, sanità e una casa per tutti. Conquiste che nel mondo occidentale ormai erano considerate normali. 

Dopo quanto tempo sei arrivato in Cile?
Il golpe contro il governo socialista di Salvador Allende è stato l’11 settembre del 1973 e io sono arrivato un anno dopo. All’ambasciata italiana a Santiago era rimasto soltanto un incaricato d’affari e un giovane diplomatico che doveva abbandonare il Paese nel giro di 5 giorni perché era stato dichiarato persona non grata dal governo cileno. All’interno dell’ambasciata si trovavano 250 rifugiati e l’incaricato di affari non poteva rimanere da solo a gestire una situazione tanto complessa, così hanno scelto di mandare me.

Perché nell’ambasciata italiana si trovavano 250 rifugiati cileni?
Al momento del golpe tutte le ambasciate di Santiago si erano riempite di rifugiati e le ambasciate degli altri Paesi avevano velocemente risolto il problema concedendo l’asilo politico. Il governo italiano invece non aveva preso una decisione temendo che concedendo asili politici le persone non avrebbero mai smesso di saltare il muro dell’ambasciata per rifugiarsi all’interno. E quindi un anno dopo il golpe, quando si temeva che ci fossero manifestazioni in piazza, i militari hanno cominciato di nuovo a dare la caccia a possibili dissidenti. Chi si trovava in pericolo di vita è andato nell’unico luogo dove si trovassero ancora dei rifugiati e l’ambasciata italiana si è riempita di persone in cerca di salvezza. 

Chi era Lumi Videla?
L’episodio riguardante Lumi Videla è accaduto prima che arrivassi ed è stato il motivo per cui il mio predecessero nell’ambasciata cilena è stato espulso dal Paese. Lumi Videla era una giovane militante di 26 anni del Mir (Movimiento izquierda revolucionaria) che è stata sequestrata ed è morta sotto tortura. Il 4 novembre del 1974 il suo cadavere è stato buttato all’interno dell’ambasciata italiana dai militari cileni. L’idea era di creare confusione, spaventare i rifugiati e dimostrare che i militari potevano fare ciò che volevano: anche entrare dentro all’ambasciata. Si voleva creare terrore e ci sono riusciti. Il cadavere è stato buttato alle tre di notte, i rifugiati hanno sentito un rumore e hanno trovato il cadavere di questa ragazza: molti di loro la conoscevano. Hanno immediatamente chiamato Roberto Toscano, il giovane diplomatico che ho poi sostituito, che la mattina dopo ha denunciato il fatto. In quegli anni vigeva il coprifuoco e, dato che il cadavere era stato buttato in piena notte, riconduceva l’atto ai militari che erano gli unici che potevano liberamente circolare. La denuncia di Toscano è stata considerata una grande offesa e per questo è stato cacciato. Tutto ciò va inquadrato nell’ottica di una partita che si stava disputando fra il governo italiano e quello cileno.

Che disputa era?
Pinochet voleva che l’Italia riconoscesse al Cile lo status di governo legittimo e che non ci fossero rifugiati perché se si concedevano asili politici era chiaro che nel Paese era in corso una caccia all’uomo. Il governo di Roma avrebbe voluto normalizzare i rapporti ma non poteva perché l’opinione pubblica era fortemente schierata contro Pinochet. Quindi era una partita di colpi e contraccolpi che si giocava sulla pelle dei rifugiati. 

Cosa succedeva a chi era considerato un sovversivo?
Erano torturati, uccisi o imprigionati. Torturati per sapere: i militari volevano da loro informazioni. Nel Paese era ancora presente un’opposizione alla dittatura: le frontiere erano state chiuse e molte persone di sinsitra, legate al governo di Allende, erano rimaste bloccate. C’era la caccia all’uomo e per cercare di salvarsi la vita venivano nell’unico posto rimasto aperto: l’ambasciata italiana. Mi ricordo un episodio tremendo. Stavo rientrando nella residenza e stavo aspettando che aprissero il cancello quando ho visto all’angolo dell’ambasciata due carabineros che tenevano per il braccio un ragazzo molto giovane. Aveva un cane lupo che gli stava dietro inferocito. Io sono rimasto impietrito con la terribile consapevolezza che c’era una vita in pericolo a un passo da me e io non poteva fare nulla. 

Come hai cercato di aiutare i rifugiati?
Mi hanno subito chiesto di andare a vivere con loro in ambasciata. La presenza di un diplomatico in residenza rafforzava il fatto che fosse un luogo inviolabile ed extratteritoriale per cui un accesso da parte delle forze armate cilene sarebbe stata una violazione del diritto internazionale. I militari cileni non volevano scandali: piano piano stavano cercando di far dimenticare l’immagine di selvaggi che si erano creati nel mondo. Così mi sono trasferito e mi occupavo di loro. Il mio lavoro era soprattutto rispondere al continuo verificarsi di situazioni d’emergenza legate all’avere dentro all’ambasciata 250 persone, fra cui 40 bambini.

Qual era l’iter per far uscire i rifugiati dal Paese?
C’era un’unica possibilità: un Paese doveva riconoscere al richiedente lo status di rifugiato e poi il governo cileno doveva concedere un lasciapassare, senza il quale non era possibile raggiungere l’aeroporto. Il governo italiano non voleva accettare altre persone e quindi tentava che altri Paesi se ne facessero carico, ma era quasi impossibile. Era una situazione di muro contro muro in cui gli unici che si attivavano erano i rifugiati stessi. I militari non avevano potuto tagliare le comunicazioni telefoniche dato che era una sede diplomatica. I rifugiati quindi erano in contatto con la stampa di tutto il mondo e informavano continuamente su quello che stava succedendo nel Paese.

Una situazione difficile da risolvere.
Praticamente irrisolvibile con il governo cileno che per fare pressione su quello italiano permetteva a quante più persone possibili di entrare dentro all’ambasciata per scatenare il caos. Poco prima che partissi hanno raggiunto un accordo: il governo cileno avrebbe concesso il lasciapassare a tutti i rifugiati presenti nell’ambasciata italiana, con la clausola che dopo si sarebbe alzato il muro dell’edificio. I militari avrebbero anche rafforzato la sorveglienza in modo che non entrasse più nessuno. E così è stato. A me è sembrato terribile perché voleva dire eliminare l’utima speranza per persone in rischio di vita. Dall’altra parte se si fosse continuato così si sarebbero rotti tutti i rapporti bilaterali. È difficile dare un giudizio, ma mi è sembrata una chiusura. 

Quando c’è stato il golpe in Argentina cosa è successo?
Il 24 marzo del 1976 a Buenos Aires non è accaduto nulla. Il golpe a Santiago era presente nell’immaginario mondiale come un esempio emblematico dell’uso della forza in senso repressivo con i carri armati nelle strade, i bombardamenti, le sacche di resistenza che venivano via a via eliminate, lo stadio pieno di detenuti torturati e fucilitati e le ambasciate colme di rifugiati. A Buenos Aires non è accaduto. Quella mattina ci si è svegliati e si sapeva che il golpe stava per arrivare ma con grande sollievo ci si è trovati di fronte a una situazione normale: il traffico, nessun carrarmato per strada, nessun bombardamento. I negozi erano aperti e i portieri spazzavano davanti ai portoni. Soltanto la radio trasmetteva inni nazionali e i militari sfilavano con il petto in fuori indossando l’alta uniforme mentre annunciavano che il governo di Perón era stato sostituito da una giunta militare per salvare il Paese dal caos. Si temeva che ci fosse la stessa violenza vista in Cile ma si è sparsa subito la sensazione che i militari avrebbero miracolosamente ripulito il Paese senza l’uso della violenza.

Ed era così?
Il giorno stesso ho incontrato Giangiacomo Foà, corrispondente del Corriere della Sera, e mi ha spiegato che non era così: durante la notte, nelle immense periferie di Buenos Aires, c’erano state irruzioni nelle case da parte di personale militare in borghese. Erano arrivati in macchina o con camion militari senza targa e avevano sequestrato persone giovani. Anche in Argentina era in corso la caccia all’uomo.

Chi era Giangiacomo Foà?
Era il giornalista tipico di quell’epoca: iperattivo e iperpresente in tutte le situazioni. Si manteneva in forze grazie al whiskie e alle sigarette. Sapeva tutto e aveva contatti con tutti. Aveva un gran cuore, forse era questa la differenza. Ogni volta che c’era bisogno di far sapere in Italia che una persona stava per essere respinta, lui interviva e scriveva. 

Cosa è successo i giorni dopo il golpe?
Il racconto di Foà mi è stato confermato da genitori o fratelli di giovani sequestrati che venivano a chiedermi aiuto. Le testimonianze si somigliavano tutte: durante la notte arrivavano queste bestie in borghese, malmenavano la famiglia e sequestravano il giovane che veniva buttato in una macchina e lo portavano via sgommando. Il tutto poi finiva con un saccheggio: erano famiglie modeste ma i militari prendevano tutto ciò che aveva valore. Il frigo, il televisore, la macchina, il cappotto e i pochi gioielli che possedevano. Prima di andarsene assicuravano alla famiglia che avrebbero semplicemente portato il ragazzo in commissariato. 

Ed era vero?
I genitori il giorno dopo si recavano in commissariato dove accadeva sempre la stessa scena. Un poliziotto consultava un librone che conteneva i nomi degli arrestati e diceva che non trovava riscontro spiegando che sicuramente era una messa in scena: il govane era stato sequestrato dalla guerriglia o era scappato con la fidanzata. Ripetevano sempre: “Se non ha fatto nulla di male, tornerà”. E poi consigliavano ai genitori di non fare troppo rumore intorno alla faccenda perché sarebbe potuto essere pericoloso. Un atteggiamento molto minaccioso.

Cosa facevano allora le famiglie?
Avevano comunque una speranza e quindi aspettavano, fino a quando capivano che non sarebbe accaduto nulla e allora cercavano un avvocato per applicare l’habeas corpus.  

Che cos’era?
Era un diritto dell’individuo previsto dalla Costituzione argentina per cui entro 48 dalla richiesta il giudice era tenuto a dire dove si trovava la persona detenuta e per quale motivo lo era. Il problema maggiore era trovare un avvocato disposto a presentare il ricorso dato che i pochi che accettavano erano massacrati. Ogni tanto si leggeva sul giornale di un avvocato trovato con la testa schiacciata in una pozzanghera, sigarette spente su tutto il corpo, trovato in un baule di una macchina in fiamme oppure ucciso con la “cravatta”: una taglio alla gola e la lingua tirata fuori.

Chi veniva in Consolato in cerca di aiuto?
Due tipi di persone. Le famiglie per chiedere assistenza legale e per le quali abbiamo trovato con fatica un avvocato disposto ad aiutare e poi i giovani che spiegavano chiaramente di essere perseguitati. Non sapevano più dove andare, non avevano altri nascondigli: se li cacciavamo sarebbero stati torturati e uccisi. Però prima c’era stato un episodio significativo.

Cos’era accaduto?
Il venerdì dopo il golpe erano arrivati in consolato 5 ragazzi cileni sorvegliati dai poliziotti. Si vedeva che volevano portarli via. Erano stati all’ambasciata italiana per richiedere lo stato di rifugiati ma erano stati cacciati. Questi 5 ragazzi vivevano in Argentina come rifugiati ed alloggiavano in un edificio delle Nazioni Unite, dell’Alto Commissariato per i rifugiati. Quella mattina erano arrivati dei militari cileni che chiedevano l’elenco dei cileni presenti e quindi avevano capito che gli stavano dando la caccia. Era chiaro che i militari cileni stavano operando in Argentina. Quello per me è stato il primo accenno al Piano Condor. 

Che cosa ne è stato di loro?
Sono riuscito a farli entrare in ambasciata. Ingenuamente credevo che una volta entrati, se si fosse saputo di loro in Italia grazie all’aiuto di Foà,  l’ambasciata sarebbe stata costretta ad aprire le porte a tutti. Foà ha scritto un articolo e loro non sono stati espulsi. Però l’ambasciata non ha aperto le porte, anzi. Ha alzato le reti per evitare che venissero scavalcati i cancelli e questi 5 ragazzi sono rimasti in isolamento per 3 mesi. Due di loro hanno tentato il suicidio e alla fine, in stato di debolezza, hanno accettato di essere consegnati all’Alto commissariato per i rifugiati. La situazione era tragica: i parenti e i giovani che avevano bisogno di aiuto e l’ambasciata che cacciava chiunque. 

Cosa potevi fare per aiutarli?
Non potevo offrirgli lo status di rifugiato perché quello spettava all’ambasciata. Lo Stato italiano non voleva rifugiati, però ho capito che avevo degli strumenti in mano per poter aiutare: il rilascio dei passaporti e il rimpatrio. Il vero problema era ottenere che il Ministero degli Esteri autorizzase entrambi. Per il governo italiano era prioritario manterere buoni rapporti con i militari argentini quindi né l’Ambasciata né il Ministero degli Esteri ne volevano sapere. L’interesse sia degli italiani che dei militari era evitare lo scandalo. C’era stato un accordo non detto fra i militari di Videla e i governi occidentali, fra cui quello italiano: in Argentina potevano fare tuttò ciò che volevano a patto che non si sapesse per evitare che l’opinione pubblica si rivoltasse contro i governi democratici come era accaduto nel caso cileno. La desaparición nasce da un’esigenza mediatica globale di nascodere la caccia all’uomo che era in corso in Argentina e dai governi occidentali che in buona sostanza richiedevano ai militari di Videla di trovare un modo per eliminare gli oppositori senza che si sapesse, così che non fossero costretti a mettersi ufficialmente contro di loro. 

E quindi com’era l’Argentina di quegli anni?
L’Argentina diurna era perfettamente normale: traffico, negozi, cinema, teatri. Tutto procedeva normalmente. C’era però un’altra Argentina, quella notturna in cui cui uomini in borghese in macchina senza targa sequestravano, portavano via e saccheggiavano. Si è capito molto dopo quale fosse il sistema perché sul momento era qualcosa di impensabile. I giovani erano sequestrati e fatti sparire nelle centinaia di centri clandestini di detenzione e tortura che si trovavano in tutto il Paese. Potevano essere in qualsiasi posto: un villino isolato o un garage sotteraneo. L’importante era che ci fosse sempre musica a tutto volume in modo che non si sentisse quello che accadeva all’interno di quelle mura.

Cosa accadeva?
Venivano immediatamente sottoposti a tortura per avere informazioni, soprattutto i nomi di altri militanti. Quando ci riuscivano partivano subito a cercarli. Il problema era che una volta che dal torturato erano state estratte tutte le informazioni possibili, i militari non sapevano cosa farne. Non poteva essere rilasciato perché si sarebbe saputo cosa accadeva. Non potevano ucciderlo e buttare il corpo da qualche parte come in Cile. E allora è nata l’idea di far sparire i cadaveri. E così hanno iniziato a buttare i morti in mare per farli sparire. Prima che lo cacciassero Foà mi ha raccontato che in Uruguay stavano iniziando ad emergere decine di cadaveri trasportati dal mare: corpi torturati e con acqua nei polmoni. Erano buttati in acqua vivi.

Perché la desaparación dei cadaveri è una pratica così crudele?
È inimagginabile che si facciano sparire le persone. Nessuno lo poteva credere, nemmeno le madri di chi scompariva. Si sapeva che i militari torturavano a ammazzano però ricompariva sempre il corpo, buttato in una cunetta o in una discarica. Torturato, fatto a pezzi. Ma appariva. Lo dice Omero e anche Antigone: dagli albori dell’umanità, l’uomo uccide ma resistuisce il cadavere ai parenti perché possano effettuare il rituale funebre e inizare l’elaborazione del lutto.

Perché è importante?
Nella mente umana se non c’è un cadavere, non c’è il morto. Non si può credere che il ragazzo che fino a poco tempo fa sedeva lì con te ora è deceduto se non c’è il cadavere a testimoniarlo. Si continua a credere che finirà per apparire, ci si aggrapa a questa speranza. Le madri, i parenti, gli amici speravano che ricomparissero. Nessuno poteva immaginare che i militari argentini avevano avuto la diabolica idea di far sparire i morti. La cosa tremenda della desaparición è che uccide due volte perché nonostante tu sappia che è morto non riesci a crederlo. Ci sono genitori e fratelli che ancora oggi aspettano perché non riescono ad accettare che un ragazzo, magari di 14 o 15 anni, sia morto. 

Quando sono iniziati i processi ai regimi sudamericani i militari hanno risposto che la loro era una guerra al terrorismo. Nella tua esperienza i desaparecidos erano tutti guerriglieri?
No. C’era la guerriglia e facevano delle azioni clamorose che però trovavano un’eco spropositata nella stampa perché si voleva dare l’impressione che il Paese si trovasse nel caos. Saranno stati 3mila combattenti, non avevano possibilità di rovesciare un regime così articolato e moderno. Non c’era nessuna possibilità di ribaltare questa situazione: quello che era accaduto a Cuba non si sarebbe ripetuto negli altri Stati latinoamericani.

Perché hai deciso di aiutare mettendo a rischio la tua stessa vita?
In Cile ho capito che non è possibile mettere in atto un golpe senza spargimento di sangue. Per cui mi è stato chiaro che in Argentina accadeva lo stesso, solo in modo diverso. Mi sono interrogato se far finta di non vedere ciò che stava accadendo. Ma non è facile fare finta di non capire quando una persona ti siede di fronte e ti dice che se non l’aiuti verrà uccisa.

Secondo te è importante che ancora oggi, dopo 40 anni, si facciano processi per cercare giustizia per i desaparecidos?
Lo è sicuramente per le famiglie ma credo che nella difesa dei diritti umani esista il grande rischio di cadere nella retorica. Non si possono tutelare i diritti umani 40 anni dopo i fatti. Si deve intervenire sul momento, è troppo facile condannare un genocida a 90 anni quando ormai è in disgrazia. Ben altra cosa sarebbe stata se il governo italiano avesse preso allora una posizione chiara a tutela dei diritti umani almeno dei connazionali. Altri Paesi avrebbero fatto lo stesso. Ben venga comunque la verità giuridica perché integra la verità storica e spesso la sostituisce. Però, e lo dicono gli inglesi: giustizia ritardata, giustizia tradita.