Il golpe Uruguayano

Intervista a – Francesca Lessa
Scritta da Alfredo Sprovieri

Francesca Lessa ha un dottorato in Relazioni internazionali alla London School of Economics ed è entrata a far parte dell’Università di Oxford come ricercatrice post-dottorato nel 2011, presso il Latin American Centre della prestigiosa università inglese. Tra il 2016 e il 2020 ha ricevuto la borsa di studio “Marie Skłodowska-Curie” della Commissione europea per condurre un progetto sulla repressione statale transnazionale nel Sud America degli anni ’70 e sui tentativi contemporanei di ottenere giustizia per questi crimini contro l’umanità. Collabora frequentemente con organizzazioni regionali e internazionali e ONG, avendo tenuto presentazioni alla Commissione interamericana sui diritti umani, al Centro per la giustizia e il diritto internazionale, all’Ufficio di Washington per l’America Latina, ed è Presidente Onorario dell’Osservatorio Luz Ibarburu, una rete di ONG per i diritti umani dedite alla lotta contro l’impunità in Uruguay.

Come matura il Golpe in Uruguay?

La data del golpe in Uruguay è il 27 giugno del 1973, giorno in cui si ufficializza la chiusura del Parlamento uruguaiano da parte delle Forze Armate che appoggiavano in quel momento il presidente Juan Maria Bordaberry del Partito Colorado, che è uno dei partiti tradizionali in Uruguay insieme al Partido Blanco e al Partido Nacional.

Questa data è sicuramente importante, visto che è il punto di inizio della dittatura che poi durò per oltre 12 anni, fino al marzo del’85, ma potremmo anche dire che è stato l’apice di un processo dittatoriale e di governi autoritari che in realtà erano iniziati molti anni prima, perché Il golpe ovviamente succede in un giorno specifico, ma le cause che gli danno origine si ritrovano già nelle precedenti amministrazioni, in particolare già nei governi dei presidenti Jorge Pacheco Areco, dal ‘66 al ‘71 e anche nel governo di Bordaberry dal ‘71 al ‘73, fino al golpe, appunto. 

Già alla fine degli anni Sessanta e anche prima l’immagine idilliaca dell’Uruguay si stava smembrando, perché già allora il paese viveva un periodo di tensioni civili, politiche e socio-economiche in cui punto inizia a crearsi questo processo di discesa verso un governo militare e autoritario. In particolare, dal 1968 in poi, i governi succedutisi avevano anche sempre di più limitato le libertà di espressione e di assemblea dei vari partiti politici e anche dei sindacati e la polizia era già attiva nella repressione, specialmente nella tortura di persone che erano sospettate di far parte del Movimento di liberazione nazionale (Mln), ma anche di studenti e sindacalisti. Va inoltre considerato che nel ‘73 il golpe matura quando praticamente il Mln era già stato sconfitto, con tutti i principali leader Tupamaros in carcere dopo una serie di operazioni repressive iniziate già a fine anni Sessanta e culminate nel ‘72. Quindi in realtà vediamo che il processo che porta al golpe è, come sempre accade, qualcosa che viene da lontano.

 

Quali forze esterne si sono mosse per favorire questo rovesciamento autoritario?

Mentre in Cile è stato dimostrato che gli Stati Uniti d’America  hanno fatto tutto il possibile per frenare l’esperimento del presidente Allende con il suo governo socialista e hanno avuto un ruolo diretto nella gestazione del golpe militare di Pinochet, in Uruguay questa evidenza allo stato delle cose non c’è, ma possiamo sicuramente affermare che hanno avuto un ruolo indiretto, un ruolo che ha aiutato a generare delle condizioni che a lungo termine hanno permesso alle forze armate di prendere il potere.

Credo che molte persone conoscano il caso del film “L’Amerikano”, dove si racconta la vera storia del poliziotto statunitense Dan Mitrione che venne rapito e ucciso dalle Mln (Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros, ndr) a fine anni Settanta. Come fu dimostrato già da molti anni prima si trovava in Uruguay, arrivato per i cosiddetti progetti di Cooperazione e sviluppo, quando in realtà è stato dimostrato che insegnava tecniche di controinsorgenza ai poliziotti uruguaiani. Ecco, era una trasmissione ideologica molto comune nel contesto della guerra fredda, gli Stati Uniti promuovevano politiche brutali e di repressione con l’uso della tortura in molti apparati sudamericani e in Uruguay lo vediamo non solo con la polizia, ma anche con le forze armate, perché grazie ai processi giudiziari ritroviamo i nomi di militari uruguaini tra gli studenti della conosciuta Escuela de las Americas, istituto statunitense che a Panama ha formato militari sudamericani in quella che si chiama controinsorgenza, e che sappiamo che sono tecniche di tortura e repressione.

Quindi questo per un lato c’era sicuramente, poi dobbiamo tener conto anche dell’appoggio economico, perché l’Uruguay era uno dei principali paesi sudamericani, insieme al Brasile, a ricevere aiuti economici di milioni di dollari dagli Stati Uniti. Fondi che vennero poi utilizzati dai governi per la repressione della popolazione uruguaiana, perché è stato dimostrato come negli anni della dittatura i membri delle forze armate uruguaiane sono aumentati tantissimo, soprattutto in proporzione a quelli che allora erano i numeri di una popolazione molto piccola, di 2 milioni e mezzo di persone circa.

Quindi abbiamo una collaborazione di addestramento ideologico militare e un appoggio economico da parte degli Stati Uniti che vanno contestualizzati nell’assetto geopolitico della guerra fredda in cui gli Stati Uniti consideravano, soprattutto dopo la rivoluzione cubana dell’anno 1959, tutto il centro America e il Sudamerica il “Patio trasero”, cioè il giardinetto dietro casa, quindi una zona di influenza dove non si sarebbe tollerata nessun altro governo filocomunista. Questo nel caso dell’Uruguay lo vediamo anche nella cosiddetta operazione “30 ore”, che era stata preparata in Brasile dove già c’era una dittatura militare dall’anno ’64 e che prevedeva le forze armate militari brasiliane pronte a intervenire se avesse vinto la coalizione di sinistra del “Frente amplio.

 

Fra le dittature sudamericane quella uruguaiana è stata spesso rappresentata come un regime tutto sommato più blando, meno sanguinario. Da dove viene questa percezione e, soprattutto, è davvero così?

Questa convinzione penso dipenda dalle politiche di impunità dei governi democratici uruguaiani dopo il 1985, quando, dopo la transizione democratica, tutti i governi, chi più chi meno, hanno portato avanti delle politiche del silenzio, nelle quali non si doveva parlare del passato e non si doveva rompere l’equilibrio tra i civili e le forze armate per non correre il rischio di un altro golpe. In questo contesto ci sono state per molto tempo poche ricerche, sono stati protetti i responsabili della dittatura e si è anche mantenuta questa immagine dell’Uruguay come “la Svizzera dell’America latina”. 

Questa immagine molto vecchia in realtà è stata sostituita già nei primi anni Settanta da una serie di rapporti di Amnesty international e di altre Ong che invece caratterizzavano l’Uruguay come la camera di tortura dell’America Latina. Nell’anno 1977 un altro in forme di Amnesty International addirittura segnalava che l’Uruguay aveva il numero maggiore di prigionieri politici nel mondo rispetto alla sua popolazione. Queste due immagini ci dimostrano quindi chiaramente come quella costruita di una dittatura più blanda non corrisponde alla realtà. 

Bisogna infatti considerare, guardando ai paesi del Cono Sud, che l’Uruguay è quello ampiamente più piccolo, perciò i numeri uruguaiani sembrano inferiori se non inseriti nel contesto di una popolazione molto più piccola. Non si potevano far sparire 30mila persone, che è il numero di desaparecidos che conosciamo sull’Argentina, un paese che all’epoca aveva 60 milioni di cittadini, in un paese come l’Uruguay che ne aveva circa 2 milioni e mezzo. 

 

Quali sono invece i numeri che conosciamo sulla repressione uruguaiana?

In Uruguay si parla di 198 fra persone scomparse in Uruguay e cittadini uruguaiani scomparsi all’estero. Ci sono 202 uruguaiani che sono stati uccisi in esecuzioni arbitrarie in Uruguay e sono stati calcolati 6mila prigionieri politici definiti di “larga data”, cioè quei prigionieri politici che hanno passato in media 8 anni in una delle due carceri politiche che erano “Libertad” per gli uomini e “Punta de Rieles” per le donne e un numero più ampio di circa 60mila persone che sono stati magari sequestrate per pochi giorni, detenute per alcune ore o per qualche mese nelle carceri politiche. Si calcolano infine 200mila persone che hanno abbandonato l’Uruguay per andare in esilio. 

 

Quali sono state le caratteristiche principali della macchina repressiva uruguaiana e in che tipo di contesto vanno inquadrati questi numeri?

Senza dubbio possiamo segnalare come le caratteristiche principali di questo macchinario repressivo sono la tortura sistematica e la prigionia politica perché appunto era previsto il carcere per gli oppositori praticamente a vita. Queste sono state le caratteristiche principali scelte dal regime in Uruguay, perché come dicevo prima in una popolazione così piccola una politica di sparizioni forzate come è successo in Argentina non sarebbe stata diciamo sostenibile. Molti autori segnalano però che la dittatura uruguaiana è stata quella più simile alla dettatura immaginaria di Orwell, uno stato totalitario che entrava in tutti gli aspetti della vita dei cittadini, quando anche per fare una festa di compleanno bisognava richiedere un permesso alla dittatura. I cittadini venivano divisi in categorie: A, B o C. Se eri un cittadino dell’ultima classe, non potevi avere un passaporto, non potevi lavorare, tutte le tue possibilità di vita erano praticamente azzerate. 

Questo evidenzia quanto quello uruguaiano sia stato un regime molto totalitario e assoluto; in più è stato sono stati particolarmente efficaci a nascondere per molti anni gli aspetti ancora peggiori della repressione politica. Per esempio, per molto tempo le forze armate hanno giustificato i casi di sparizioni forzate in territorio uruguaiano, che sono circa una trentina, dicendo che si trattava di persone che non avevano sopportato la tortura e quindi erano morte in conseguenza della tortura. Dopo molti anni in realtà, quando sono stati trovati alcuni dei pochi corpi delle persone scomparse, l’evidenza forense nelle autopsie sui corpi ha dimostrato che era anche quella appunto una scusa per cercare di mitigare le esecuzioni sommarie. 

 

Quali sono i rapporti di questa macchina repressiva con quelli delle altre dittature sudamericane del tempo?

Rapporti molto fitti. Parlando del Plan Condor infatti, il disegno di coordinamento fra le diverse dittature per annientare le opposizioni, è molto importante anche segnalare come l’Uruguay abbia utilizzato in una maniera molto efficiente le strutture della coordinazione repressiva, visto che molti esuli politici uruguaiani si trovavano in Argentina, soprattutto a metà degli anni ‘70, e oggi sappiamo che l’Uruguay ha partecipato nelle operazioni in Argentina sequestrando e facendo sparire molti dei propri cittadini, un numero quattro volte superiore a quello dei sequestrati e fatti sparire nel proprio territorio. I processi hanno dimostrato che sono gli agenti uruguaiani che sono stati direttamente impiegati in queste operazioni anche fuori dal proprio territorio nazionale.   

 

Quindi si evince anche il ruolo di un servizio di intelligence particolarmente organizzato. 

Sì, nei primi anni ‘70 venne fondato un gruppo militare di élite all’interno del corpo della marina militare uruguaiano ispirato ad altri gruppi di élite tipo i Marines americani, ma anche ai paracadutisti francesi che avevano operato sia nelle guerre di Algeria che in Vietnam. Si chiama Fusna (da Fusileros Navales) e la sua base è nel porto di Montevideo, dove molti oppositori sono finiti sequestrati e torturati. Questo gruppo aveva origine già dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma poi venne creato formalmente con l’obiettivo specifico di dedicarsi alla repressione politica. Il Fusna è passato alla storia per la particolare efferatezza delle sue condotte repressive e le sinergie di questo corpo con i reparti di intelligence degli altri paesi si intensificano già dal 1974, poi con il passare del tempo il Fusna assume un ruolo chiave nella repressione politica in Argentina. Nel 1977 infatti si crea una relazione molto più stretta, anche perché si stavano preparando i Mondiali del ‘78 in Argentina e l’Argentina sapeva che molti militanti montoneros erano esiliati in Uruguay e stavano organizzando delle azioni in Argentina e quindi si crea diciamo questa forte sinergia che significherà un destino tragico per moltissime persone.

 

A distanza di tanti anni a che punto è il processo di pacificazione dell’Uruguay con questa parte buia della sua storia?

Dire che l’Uruguay sia un paese che ha fatto pace con il suo passato è un po’ difficile. Sicuramente l’immagine di Pepe Mujica, comandante tupamaro che diventa presidente, ci può dimostrare come tutto sia possibile, però dire che quello rappresenta diciamo una chiusura sul passato non credo sia giusto e non credo sia comunque rappresentativo di quello che succede, perché in realtà se noi guardiamo ai numeri concreti ci sono stati solamente 15 processi in Uruguay in cui sono state condannate una quarantina di persone e un regime totalitario che era entrato in modi così profondi  nella vita delle persone possiamo tutti senza nessun dubbio che non possono essere state solo 40 persone a mantenerlo in piedi. Certamente i processi e le commissioni governative negli anni hanno permesso di conoscere un po’ più di verità, ma è certo che ne manca ancora molta, soprattutto per i molti familiari che stanno ancora aspettando di sapere cosa è successo al loro figlio o per tutte le migliaia di persone che sono state torturate e non hanno ancora avuto giustizia. Direi che tanto è stato fatto, ma molto di più ancora resta da fare.