Maria Paz Venturelli

Intervista a – Maria Paz Venturelli
Scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Marco Mastrandrea

Maria Paz Venturelli, per gli affetti Pacita, è figlia di Omar Venturelli, scomparso in Cile il 4 ottobre del 1973. È arrivata come rifugiata a Roma nel 1974 insieme alla madre quando era solo una bambina, oggi vive e lavora in Emilia-Romagna. A Santiago del Cile è rimasta cinque mesi nell’ambasciata italiana, perché al tempo in Cile la potestà genitoriale era in campo al padre e quindi per poter uscire dal paese non poteva esibire l’autorizzazione del papà che non risultava né vivo né morto ma, appunto, desaparecido. Arrivata in Italia non ha potuto più tornare in Cile, perché, nonostante fosse una bambina, era inserita in una lista di cittadini pericolosi sgraditi al regime di Pinochet. A dittatura finita, solo grazie all’intervento del Presidente della Repubblica Sandro Pertini è stata eliminata dalla lista nera e all’età di 21 anni, cioè al compimento della maggiore età secondo la legge cilena, è potuta tornare in patria per conoscere finalmente i suoi familiari.

 

Quali sono i tuoi primi ricordi dell’arrivo in Italia?

Avevo 4 anni, la mia vita in Italia può essere un esempio positivo di integrazione perché quando io sono arrivata a Roma come esule politica il supporto che il governo poteva dare agli esuli era veramente molto poco, un po’ perché non eravamo tanti e anche perché non credo ci fossero ancora gli strumenti adeguati. C’è stato un grosso movimento di associazioni, di partiti e di istituzioni locali per supportare l’inclusione degli esuli cileni, e il fatto che io arrivai qui in Italia senza avere nulla non ha implicato il fatto che non potessi andare a scuola, integrarmi, iscrivermi all’università. Sono arrivata qui da profuga, come arrivano oggi i profughi, e ho avuto la possibilità di andare a scuola come gli altri bambini italiani, di andare all’asilo, all’università, di trovare un lavoro, di costruirmi una vita qui e di essere italiana al 100%. 

 

Sei cresciuta in modo spensierato o guardavi pure a cosa accadeva nel tuo Cile?

Io mi rendevo conto di quello che stava succedendo nel mio Paese, perché l’esilio cileno è molto politicizzato. Mia mamma ha continuato a fare lavoro politico anche da qui, supportando la resistenza in Cile, per quel poco che c’era rimasto, facendo conoscere la repressione della dittatura militare. All’inizio si doveva anche semplicemente far capire che esistevano gli scomparsi, era una categoria di repressione che non esisteva prima delle dittature dell’America latina. Quindi, soprattutto attraverso i movimenti delle donne, si è strutturata questa forma di resistenza così speciale. Ricordo che tanti compagni passavano da casa nostra e ci raccontavano quello che succedeva in Cile.  La mia situazione era sicuramente diversa da quella degli altri, ma a Bologna ho rincontrato da poco alcuni miei compagni delle elementari che si ricordano ancora oggi che quando io sono arrivata in classe la maestra mi chiese di spiegare perché ero qui e loro si ricordano ancora quello che avevo spiegato.  

Qual è la storia della tua famiglia, chi era Omar Venturelli?

La storia di mio padre è quella di tanti emigrati, la mia famiglia viene dall’appenino modenese e sono emigrati nei primi del ‘900. Si sono spostati in una colonia italiana nel sud del Cile che si chiama Capitan Pastene e hanno cominciato a vivere portando con loro tutta la cultura contadina tipicamente italiana. Per cui hanno allevato maiali, fatto prosciutti, costruito canali e mulini. Hanno vissuto insieme agli indigeni Mapuche, mio padre è andato via dalla campagna abbastanza presto per studiare. È entrato in seminario quando aveva 15 anni a Concepcion e ha finito gli studi di teologia a Santiago. Terminati gli studi gli hanno dato una piccola parrocchia nell’ Araucanía e ha cominciato a lavorare costruendo gruppi di giovani, chiamati la gioventù cattolica, e ha lavorato organizzando gli indigeni nel recupero delle terre. La Araucanía è una regione prevalentemente agricola e c’erano grandissimi fondi in mano a poche famiglie e molti poveri che lavoravano la terra. C’era stata già una piccola legge di riforma agraria che però era stata applicata malamente dai governi precedenti, perciò durante i primi anni ’70 c’è stato un grosso movimento di recupero delle terre. In questi movimenti lavorava anche mio padre. A causa di tutto questo lavoro mio padre fu allontanato dalla parrocchia e fu sospeso. Quindi cominciò a lavorare come professore all’università cattolica di Temuco. Dopo si sposò con mia mamma e poi sono nata io. Insegnava filosofia e studiava pedagogia, ha collaborato con il programma di alfabetizzazione per adulti del governo Allende, perché allora buona parte degli adulti della classe più povera erano ancora analfabeti, ed era necessario costruire una struttura didattica per insegnare a questi adulti come scrivere, partendo dai concetti che a loro potevano essere più vicini, quindi una cosa diversa rispetto ai bambini. 

Come cambiò tutto dopo il golpe?

L’11 settembre l’ha trovato in questa situazione e lui è entrato all’interno del bando dei professori insieme a mia mamma. La sua militanza pubblica era quella dei cristiani per il socialismo ed era anche uno dei quadri politici del MIR (Movimiento de Izquierda revolucionaria). Pochi giorni dopo il golpe mio padre e mia madre decisero di separarsi, entrambi sapevano quello che stava succedendo. Mio padre ha deciso di andare a salutare i genitori. Mio nonno che da bravo italiano era cattolico e conservatore, si era preoccupato di andare a parlare con il generale della provincia di Cautin per chiedergli cosa dovesse fare dato che suo figlio era stato iscritto in una di queste liste che dicevano che ti dovevi presentare nella caserma più vicina e nel caso non l’avessi fatto i militari potevano spararti a vista. Il generale, che si chiamava Ramirez Ramirez, gli disse che non c’era nessun problema, che era una formalità, che si presentasse tranquillamente. E lui gli credette. Anche perché la famiglia di mio padre essendo una famiglia conservatrice di destra, ci ha messo molto tempo a capire che effettivamente non era solo interesse e altruismo per gli altri quello che muoveva mio padre, ma che era veramente un’ideologia politica profonda. 

Invece cosa successe?

Lo ha accompagnato lui alla caserma, lì l’ha lasciato e gli hanno detto di tornare a prenderlo la sera. Allora lui è tornato a casa e la sera, come gli avevano indicato, è tornato alla caserma. Quando si è avvicinato gli hanno sparato a vista dalla finestra e gli hanno detto di andarsene, che non gli avrebbero restituito suo figlio e che non lo avrebbe visto mai più, e così andò.

Quale fu il destino toccato a tuo padre?

Fu trasferito dalla caserma di Angol al regimento Tucapel. Qui è stato detenuto sicuramente alcuni giorni, prima di essere trasferito al carcere pubblico dove è stato interrogato e torturato. Fu visto da alcuni compagni che sono passati per il reggimento e anche dal vescovo di Temuco, che si chiamava Pinera. L’ha incontrato una di quelle mattine in cui andava a trovare il procuratore militare Alfonso Podlech. L’ha visto in un angolo mentre era guardato a vista da un militare con un mitra; allora mio padre l’ha chiamato e gli ha detto: “Monsignore…”, perché era stato lui ad ordinarlo sacerdote. Pinera è andato per avvicinarsi e il militare gli ha detto: “Eminenza, stia lontano. Nessuno si può avvicinare a lui”.  E mio padre gli ha detto: “Eminenza mi aiuti”. E ha pensato bene fosse il caso di non chiedere mai più nulla su quello che gli era successo. Per questo episodio però siamo sicuri che sia stato detenuto al Tucapel. Verso la fine di settembre è stato spostato nel carcere pubblico insieme agli altri prigionieri politici, lo spazio in cui venivano detenuti era tipo una grande palestra e lui divideva il materasso con un altro detenuto che poi ci ha raccontato gli ultimi giorni della sua permanenza in carcere. Era un medico, uno psichiatra che si chiamava Barudi. L’ha accolto quando è arrivato, l’ha visitato e ha visto i segni delle torture. E ci ha raccontato che la notte del 3 ottobre l’hanno chiamato, gli hanno detto dopo che erano state spente le luci, dopo l’orario del coprifuoco. Hanno detto “Omar Venturelli venga alla sbarra”. Quindi lui si è alzato, probabilmente ha capito che non sarebbe più tornato perché quelli che uscivano la sera chiaramente non venivano rilasciati. Ha preso le sue cose ed è uscito e da quella notte non è più stato visto. 

Cosa hanno pensato di fare i tuoi parenti in Cile da quel momento?

In tutto questo periodo mio nonno è andato tutti i giorni al carcere Tucapel per cercare di vederlo e mai gli hanno autorizzato una visita. Anche mia zia andava tutti i giorni e il 4 di ottobre al carcere gli hanno detto che mio papà era stato rilasciato la mattina stessa. E loro gli hanno detto: “Ma come? Siamo venuti ieri e ci avete detto che oggi lo avremmo visto e invece adesso non c’è”. E loro gli hanno detto “No è stato rilasciato”. Allora sono andati al reggimento e gli hanno fatto vedere il quaderno in cui teoricamente lui avrebbe firmato l’uscita, chiaramente la firma non era quella di mio papà. Quindi diciamo che i militari hanno dichiarato di averlo rilasciato, ma ovviamente era un falso rilascio. Non era mai accaduto.  

Quello che si suppone è che mio papà sia stato consegnato al generale Stark che in quei giorni stava viaggiando al sud con quella che è conosciuta come la “Carovana della morte”, che viaggiava da nord a sud in tutto il paese e aveva lo scopo di insegnare ai militari le metodologie repressive più spettacolari e le torture. Per cui il passaggio della Carovana della morte era accompagnato da una serie di esecuzioni molto spettacolari. E il 3 di ottobre il generale Stark era atterrato a Temuco con il suo elicottero Puma. Poi mio nonno ha continuato ad andare ogni settimana da Becaria per vedere se c’erano delle novità. I militari hanno raccontato che probabilmente mio papà se ne era scappato in Argentina con una donna e il 4 di ottobre stesso io e mia mamma siamo andate via da Temuco perché uno dei militari di leva che andava a Temuco le ha detto: “Anche lei è ricercata, io ora le dovrei sparare a vista. Ha una figlia se ne vada perché è pericoloso”. 

Quindi a quel punto l’unica salvezza diveniva l’ambasciata italiana, giusto?

Ci siamo separate immediatamente, abbiamo fatto la clandestinità separate. Lei è entrata prima in ambasciata. L’ambasciata italiana era quella con il muro più basso ed era quella che continuava a prendere rifugiati, per cui semplicemente si cercava di scavalcare o qualcuno ti lanciava al di là del muro. Questa era la classica procedura della richiesta d’asilo, quindi mia mamma fu lanciata oltre il muro dell’ambasciata ed entrò prima di me. E io fui accompagnata nei giorni seguenti da altre persone, persone di chiesa, che suonarono il campanello dell’ambasciata e quando aprirono il cancello mi lanciarono dentro. 

Poi finalmente la salvezza in Italia, come ricordi quegli anni?

A Roma siamo rimaste parecchio tempo per via dei documenti. A mia mamma poi fu data una borsa di studio che mise a disposizione la Val d’Aosta per una profuga politica. Lei chiese di essere destinata ad un posto dove ci fosse il sole e pochi cileni. E quindi ci trasferimmo a Palermo, dove siamo rimaste 5 anni. Lei si è iscritta all’Università, Facoltà di Lettere, aveva un complesso di musica, una vita quasi normale, finché non accadde che per due volte cercarono di entrare in casa. La seconda avevano cercato di mettere un ordigno esplosivo alla serratura della porta e quindi capimmo che per noi non era più sicuro stare a Palermo, ci dovevamo spostare. In quegli anni c’era una relazione molto stretta fra l’ambiente dell’estrema destra italiana e l’apparato repressivo cileno, per cui ci siamo spostate in un posto più sicuro: a Bologna, dove già c’erano molti esiliati cileni, perché i comuni rossi avevano dato grande disponibilità di accoglienza e di lavoro per gli esuli. Per cui nel ’79 ci siamo trasferite a Bologna e lì siamo rimaste, fino a quando mia mamma non ha deciso di ritornare in Cile. 

Quali sono stati i primi passi per cercare di scoprire la verità su tuo padre e cercare di ottenere giustizia?

Noi abbiamo cercato di fare delle denunce appena si è instaurata la commissione Redding, ma per fare in modo che ci accettassero una denuncia ci abbiamo messo più di 20 anni, perché la scomparsa non è come l’omicidio e il fatto che non ci sia un corpo per tanto tempo ha implicato il fatto che noi in Italia non potessimo fare denuncia. La Regione Emilia-Romagna, che ha collaborato con noi nella campagna per la ricerca della verità, si è costituita parte civile e ci ha dato la disponibilità del suo avvocato per cercare di istituire un processo, ma non si era trovata la modalità per fare una denuncia. Si è trovata solo dopo la sentenza sugli scomparsi argentini, in cui finalmente venne dichiarato che la scomparsa era un’aggravante della morte. Così arrivò il processo, che è stato importante ed è stato duro, soprattutto perché nel caso di mio papà i processi sono stati due. Un primo processo con un imputato alla sbarra perché il procuratore militare Podlech era a Madrid e gli è stata data l’estradizione a Roma, quindi era presente in aula a tutte le udienze. E questo processo finì male per noi, perché finì con la sua assoluzione e devo dire che quello è stato un colpo durissimo, strano a dirsi perché sinceramente quando uno vive una vita come la mia non è che si maturi una grande fiducia nelle istituzioni, però il fatto di vederlo davvero così sancito, così plateale. Avendo lì il procuratore generale di Temuco che è stato rilasciato e riconosciuto addirittura innocente, è stato veramente come vivere una cosa che era impossibile, incredibile che potesse succedere davvero, in quel tempo, era il 2012. Eppure, è stato così. E secondo me lui era sicuro che sarebbe stato assolto da sempre, perché all’inizio aveva preso un avvocato che aveva cercato di imbastire una cosa che potesse sembrare una causa per una persona anziana, malata etc. Lui ha cambiato avvocato e durante tutte le udienze ha preso la parola, quando è stato interrogato ha risposto molto convintamente rispetto al suo lavoro, a quello che aveva fatto, ha sostenuto sempre di avere agito in maniera corretta, di aver fatto quello che era giusto perché aveva combattuto contro dei terroristi. Mio padre però si era consegnato spontaneamente, quindi diciamo che aveva un concetto di terroristi un po’ particolare. 

Poi arrivò il Processo Condor, come andò invece questa volta?

Qui finalmente abbiamo avuto la prima sentenza d’ergastolo al generale Ramirez Ramirez. Solo a lui, non è stata riconosciuta alcuna imputazione per coloro che hanno concorso nella morte. Continuare a lottare per quello che ci è successo è importante, ma non si può lasciare lo facciano solo i familiari, perché è un compito troppo duro. Per me è stato importantissimo in tutti questi anni aver potuto contare su associazioni, persone che sebbene non abbiano vissuto quest’esperienza hanno messo tanta della loro energia in questo lavoro, perché altrimenti è una situazione che ti porta a non riuscire a vivere.