Hilario Bourg

Intervista a – Hilario Bourg
Scritta da Marco Mastrandrea, video realizzato da Marco Mastrandrea

La valigetta contiene dei faldoni, un laptop e una penna usb. È quello che ci si aspetta da un professionista: Hilario è un architetto, vive a Milano e i suoi figli sono adolescenti. È possibile che la penna usb contenga la presentazione del progetto; il faldone dei documenti timbrati dalle amministrazioni; il laptop per lavorare e così via. In effetti si tratta di un progetto di ricostruzione molto strutturato ma questa volta non si tratta di un palazzo o di una villa da edificare ma della storia dei suoi cari. 

È una domenica pomeriggio di marzo nel 2019, Hilario sale sul palco del Teatro Nucleo di Pontelagoscuro nella provincia ferrarese per presentare in power point la storia della sua famiglia. Ogni slide mostra dei collegamenti, forma degli insiemi corredati da documenti e foto ingiallite. Un piano dettagliato in cui zii, cugini, nonni e bisnonni compongono una parte rilevante dell’impalcatura. La razionalità dell’architetto: l’unica pecca del progetto sono i vuoti che non rendono sostenibile l’opera. La ricostruzione esordisce in Irlanda, passa dalla Spagna e dall’Italia fino a quando una buona parte della famiglia si trasferisce in Argentina ed è proprio intorno a La Plata che iniziano a scomparire volti, luoghi e filiazioni.

Dal 24 marzo del 1976, giorno in cui attraverso un golpe civico militare il regime guidato da Jorge Rafael Videla prende il potere, migliaia di persone iniziano a scomparire, tra queste i familiari di Hilario. A settembre sparisce lo zio Roberto José de la Cuadra sottratto dalle braccia della madre, Alicia. Nel febbraio del ‘77 scompaiono Elena de la Cuadra, sorella di Roberto José e al quinto mese di gravidanza, e il suo compagno Héctor Carlos Baratti. Della figlia di Elena non si saprà quasi niente per 37 anni fino a quando un test del DNA consentirà ad Ana Libertad – nome con cui Elena la chiamava nel centro clandestino di detenzione – di ritrovare e conoscere la sua famiglia. 

NeI ’77 Hilario compie tre anni e insieme ai suoi genitori e suo zio abbandonano La Plata per trovare rifugio in Italia ma pochi mesi dopo apprendono che anche Raoul Bourg, fratello di suo padre e sua moglie, sono scomparsi. 

Puoi dirci chi sei e quante sono le persone scomparse nella tua famiglia?

Sono Hilario Bourg. Nella mia famiglia contiamo sette familiari scomparsi, di cui due ritrovati: uno vivo e uno morto.

Qual è stata la migrazione della tua famiglia?

Come quasi ogni famiglia argentina abbiamo diverse origini: spagnole, irlandesi, francesi. Fra gli scomparsi c’è anche il marito di mia zia, Baratti, di origini italiane e anche la famiglia del marito di un’altra zia è di origine italiana: Fraire. 

Come è stata sconvolta la vostra quotidianità? 

Penso spesso a come sarebbe stata la mia vita, io che ho vissuto queste cose da molto piccolo, e anche quella dei miei familiari che invece erano adulti e consapevoli quando avvenivano questi fatti. Sicuramente ci sarebbe toccata un’esistenza lineare, sarei un figlio di papà con una vita molto più accomodata di quella che abbiamo adesso. Come esiliati politici i miei genitori hanno dovuto ricominciare totalmente da zero, che non è una situazione normale. Di norma si riparte sempre da quello che hanno lasciato i propri genitori. E quindi anche nel mio caso manca qualcosa e io nasco con uno sconvolgimento. 

Di cosa si occupava la tua famiglia? 

Ai tempi i miei genitori avevano poco più di 20 anni, attraversavano una di quelle fasi della vita in cui non hai ben chiaro che cosa fare. Mia madre lavorava per l’organizzazione mondiale della sanità, mio padre non aveva ben deciso. Oltretutto erano anni in cui si cambiava molto spesso lavoro, c’erano più possibilità. Avevano tanti possibili scenari davanti a loro che invece dall’oggi al domani si sono ristretti. 

Qual era nella tua famiglia il ricordo che non si voleva in nessun modo rivivere?

In famiglia sin da quando ero bambino si è sempre parlato di queste cose. Per quanto si possa spiegare e raccontare fatti così duri a un bambino di 3-4 anni. Mi facevano sempre partecipare alle riunioni, mi ricordo la Lega dei diritti dei popoli. Chiaramente non partecipavo, ma ero presente, sentivo tutti i discorsi e vedevo passare i dossier con tutte quelle foto sgranate. E fra queste mi mostravano quelle degli zii, mi raccontavano di mia cugina che stavamo ancora cercando. 

Qual è l’ingiustizia che hai più difficoltà ad accettare?

Tutto quanto. Non si può trovare un senso a tutto questo. Ancora oggi ci penso, penso ai militari, ai torturatori e non c’è una spiegazione. Va al di là di ogni logica. Poi per altri evidentemente un senso malato c’è. 

Perché è importante cercare ancora giustizia?

Mi aspetto che si celebri un processo anche a distanza di tanti anni perché sono tematiche che non devono mai cadere in prescrizione, non solo per una questione giuridica, ma perché sono elementi attivi nella contemporaneità. Quello che vediamo oggi attraverso i processi, le sentenze, ha ripercussioni, ha un valore sull’oggi perché i fatti di oggi avranno poi un loro processo, una loro evoluzione. Quindi è importante che si possa continuare a fare questo tipo di lavoro e l’Italia effettivamente negli anni ha dato un contributo importante. Se penso agli anni in cui in Argentina non si potevano fare i processi invece in Italia si è portato avanti il discorso relativamente ai cittadini italiani scomparsi in Argentina. 

 

Sei più tornato in Argentina?

Sì, la prima volta nel 1986. Chiaramente durante la dittatura non siamo mai tornati e poi ci abbiamo messo un po’ di anni a tirare su qualche soldo per poter tornare in Argentina. Io avevo 13 anni ed è stato un grande evento. Negli anni successivi sono tornato altre volte per far conoscere ai miei figli la storia della loro famiglia argentina. 

 

Come si tramanda alle nuove generazioni questa storia? 

Non è facile, bisogna far capire che non è qualcosa da archiviare, di passato. Purtroppo, non è passato. Come è possibile ci sia stata una dittatura nel passato? Come è possibile tollerare oggi certi fatti? Come è possibile che ancora oggi si dicano cose come “questo devo bruciare” o “quello deve morire”. Queste sono le avvisaglie che fanno capire che quello che è accaduto allora continua ad accadere anche oggi. Magari non tanto netta e visibile qui da noi, ma basta spostarsi di qualche chilometro, in Egitto col caso Regeni e capisci che queste cose sono reali ancora oggi.