Leonardo Barcelo

Intervista a – Leonardo Barcelo
Scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Marco Mastrandrea

Leonardo Barcelo è un esule cileno che a Bologna è diventato lettore di spagnolo all’università, ricoprendo per tre consiliature il ruolo di consigliere comunale nella città delle Due Torri. Nato a Teno, circa 300 chilometri a sud di Santiago, Barcelo ha militato fin da giovanissimo con il Partito socialista del Cile , continuando il suo impegno in politica con i Democratici di sinistra prima e poi con il Partito Democratico nella sua vita italiana. 

Come inizia la sua storia?

Quando io avevo 10 anni ho conosciuto Allende. Abitavo in un piccolo paese del centro, della zona centrale del Cile, e andavo sempre ad ascoltare i candidati alla presidenza della Repubblica. Nell’elezione del ‘58 una sera si disse che sarebbe passato Allende, allora sono andato e c’erano pochissime persone ad attenderlo, tipo 15 persone. Arrivò in una jeep, cordialmente salutò tutti quelli che c’erano lì, a me con principale affetto perché ero un bambino, e mi colpì il fatto che lui abbia parlato anche se c’eravamo in pochi a sentirlo. Quella è stata la prima volta che io vidi Allende. Poi entrai nel Partito Socialista, il partito di Allende, all’età di 16 anni. Mi sono laureato e poi dopo il trionfo di Allende del 4 settembre del 1970 ho avuto un incarico dal governo del Cile per lavorare nel Ministero della Cultura, in un settore che aveva a che fare con la commercializzazione agricola dei prodotti che venivano generalmente dalla riforma agraria che è stata portata avanti dal governo.

Come ha vissuto il giorno in cui morì il presidente?

Quel giorno verso le 7 del mattino è suonato il telefono e un compagno mi comunicava che si era sollevata la Marina a Valparaiso, e che era molto probabile che c’erano elementi di un colpo di stato con delle proporzioni molto maggiori di quelle che avevamo visto il 29 giugno del ’73, quando ci fu un colpo di stato abortito grazie alla partecipazione attiva dell’allora capo delle Forze Armate il generale Pratz. Come tanti avevamo l’indicazione che nel caso ci fosse un colpo di stato saremmo dovuti andare al nostro posto di lavoro, e così feci. Avevo una due cavalli, presi la mia macchina e andai a prendere un altro compagno che era un dirigente della Università Tecnica dello Stato, che era l’università dove Allende quello stesso giorno doveva inaugurare una mostra fotografica sul Vietnam e in quella iniziativa, si sa per testimonianze successive, Allende avrebbe chiamato un plebiscito per finire il conflitto che si era creato a livello politico, chiedendo alla popolazione se fosse d’accordo che lui continuasse il mandato o meno. Bene, si presume che quello sia anche uno degli elementi che accelerò il colpo di stato che è stato l’11 settembre 1973.  

Cosa successe dopo?

Allora, dopo aver lasciato quel compagno all’università, io sono mi sono diretto al mio posto di lavoro. Sono arrivato lì verso le 8 e 30 del mattino e in quel momento ero molto vicino al palazzo presidenziale della Moneda, a circa 150 metri di distanza. L’unica differenza che trovai con un giorno normale è che a gestire la viabilità non erano i carabinieri, ma i militari. Verso le 8:45 già cominciavano ad arrivare le carovane dei militari che si dirigevano a quello che è stato l’assalto della Moneda, dopo un po’ era visibile la presenza di carri armati e dopo una quarantina di minuti il nostro luogo il lavoro è stato preso dai militari che ci dissero che per loro era in una posizione strategica e perciò da quel momento se ne impossessavano. 

Come vi trattarono i golpisti?

Devo dire che in quel momento non ci fecero nulla. Ci comunicarono questo e ci lasciarono testimoni dell’attacco alla Moneda. Abbiamo visto l’attacco dei carri armati e poi il bombardamento dell’aviazione, abbiamo visto tutto questo orrendo speccatolo. Siamo stati nella pratica sequestrati, portati dopo in un sotterraneo, abbiamo mangiato e poi è arrivato il giorno 12, che è stato terribile. È entrato un altro gruppo militare quel giorno, e ci hanno buttato tutti contro il muro, intimandoci di consegnare le armi, ma noi armi non ne avevamo e a un certo momento, tutti contro la parete, ci ordinarono di mettere tutti le mani dietro la testa. Ho saputo dopo che i militari sapevano che una persona in una forte tensione nervosa non riesce a fare questo gesto, e mi ricordo infatti che nemmeno io ci riuscivo, con il torace che si muoveva come una gelatina perché loro con il mitra erano pronti a sparare. Di fronte alla minaccia, alcuni miei compagni sono svenuti, i militari con una grossa violenza psicologica ridevano e, parlando con i loro superiori, dicevano: “Guardate questo è il potere popolare, questi volevano fare la rivoluzione!”.  Io in quella situazione credo che mi mancassero pochi secondi per svenire. Fecero uscire armi che loro stessi avevano introdotto nel palazzo e a un certo punto sentii gridare un gruppo di colleghe che stavano torturando psicologicamente, facendogli credere che noialtri ci avessero già ucciso tutti. Il giorno dopo ci sbatterono per strada, non ci portarono né allo stadio né in un altro campo di concentramento, e lì cominciò la storia di ognuno di noi, quando ognuno cercava di salvare la propria vita come poteva. 

Quale fu il suo tentativo?

A casa non tornai più, mi rifugiai dalla famiglia di un mio ex compagno di liceo che fu generosissima e dopo 3-4 giorni, quando i momenti di maggiore panico erano ormai passati, cominciai a uscire e a cercare di avere dei contatti con i compagni e con le organizzazioni nostre, e lì anche era tutto di grande drammaticità perché scoprivi che qualcuno era stato portato in carcere, qualcun altro era già stato fucilato. A quel punto sono andato all’ambasciata d’Italia aiutato da un sacerdote che conosceva mia madre. Mi mise in una macchina verso un’ambasciata che non sapevo nemmeno quale fosse, mi spiegarono cosa dovevo fare e ho saltato un muro di oltre due metri. 

Cosa è significato arrivare in Italia?

Mi è venuto da pensare che noi abbiamo avuto un po’ l’inferno, il purgatorio e il paradiso, perché noi siamo usciti dall’inferno che era quello di non avere la garanzia della vita e la mattina dopo di conoscere le atrocità che stavano succedendo; poi per me il purgatorio è stato per due mesi all’interno dell’ambasciata, dove era sì salva la nostra vita, ma non sapevamo cosa sarebbe successo nel futuro, con il terrore del sapere che i nostri compagni ogni giorno correvano il rischio di perdere la loro esistenza. E, senza esagerazione, arrivare in Italia è stato il Paradiso. Perché arrivare in Italia e trovarci con delle persone che ci accoglievano e ci offrivano la loro solidarietà, soffrivano e tutto quello che loro potevano da un punto di vista umano, significava che insieme a quella accoglienza verso di noi c’era anche la preoccupazione permanente per combattere la dittatura di Pinochet. Allora da oggetto di solidarietà siamo passati a essere soggetti attivi, siamo tornati a essere di nuovo persone, siamo tornati di nuovo a poter essere cittadini che si di nuovo si possono impegnare, certo, in un altro paese che non era il nostro paese di origine, ma mantenendo gli stessi ideali per una società più giusta, per una società di uguali. Questo per me è stato il paradiso.