Il golpe cileno

Intervista a – Alessandro Santoni
Scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Luiz Alve Junior

Alessandro Santoni vive in Cile da dieci anni. Lì insegna Storia, all’Institudo de Estudios Avanzados dell’Università di Santiago del Cile e il suo impegno di ricerca scientifica in questi anni si è sempre dimostrato teso a collocare la storia contemporanea del Cile nel quadro delle trasformazioni internazionali che l’hanno prodotta e influenzata.

 

Cosa successe in Cile l’11 settembre 1973?

Io penso che per capirlo, per capire come si giunge al golpe dell’11 settembre, dobbiamo capire cosa stesse succedendo in Cile in quel momento. Nel 1970 arriva al potere un governo socialista, è presidente Salvador Allende con un progetto di profonda trasformazione della società cilena attraverso il cammino democratico. Allende è appoggiato da una coalizione di partiti, tra cui il Partito Comunista, il suo partito socialista e altri gruppi di cattolici di sinistra che già per il progetto in sé si trova di fronte a una risposta estremamente negativa da parte di settori importanti della società cilena, che non sono solo le classi più ricche, ma anche una parte della classe media che si sente minacciata da quel progetto. 

Poi c’è anche una forte attenzione, direi una preoccupazione, per quello che sta succedendo in Cile da parte degli Stati Uniti: a Washington infatti si avverte sicuramente il grande pericolo di avere un altro paese socialista nell’emisfero occidentale dopo Cuba, ma c’è un pericolo che va più in là del contesto latino-americano e Kissinger parlando con Nixon, per esempio, manifesta la possibilità che l’esperimento cileno possa avere qualche tipo di ripercussione in altre parti del mondo, che possa diventare un modello in altre parti del mondo, citando esplicitamente l’Italia e la Francia, dove c’erano forti partiti comunisti.

Per cui c’è una risposta negativa al progetto in sé e c’è anche una gestione abbastanza inefficiente e incoerente del progetto allendista, quello va detto, e l’insieme di questi fattori conducono poco a poco il paese a una situazione di caos economico, di conflitto tra vari settori della popolazione. Ci sono spinte da parte della CIA, c’è la mano degli Stati Uniti dietro, come molto si è detto, però c’è soprattutto l’iniziativa di forze cilene.

 

Che ruolo gioca in tutto questo l’esercito?

Un ruolo importante. Durante gran parte di quel processo politico l’esercito aveva mantenuto una posizione di neutralità, addirittura il comandante in capo dell’esercito, Carlos Prats, aveva appoggiato lealmente Allende, era stato ministro del suo governo; però la maggioranza delle Forze Armate sono favorevoli a porre fine all’esperimento socialista e infine si impongono. Qui entra in gioco la figura del generale Pinochet, che successe a Prats come comandante in capo e che in un primo tempo è considerato leale al governo di Allende e che probabilmente poi cede, anche per ragioni di opportunismo, alle pressioni degli altri generali, prendendo il controllo del golpe. 

Il colpo di stato ovviamente poi getta il paese in una situazione di incertezza totale, soprattutto nelle prime settimane, nei primi mesi, c’è una repressione indiscriminata di coloro che avevano appoggiato il governo Allende ed è abbastanza difficile capire quante persone siano realmente morte in quelle settimane, in quei primi mesi. Il punto è che, sebbene in un primo momento molte persone che avevano appoggiato il colpo di stato pensavano che i militari lo facessero per poi restituire il potere civili, credendo in qualche modo più a un “levantamiento”, a una sollevazione più che a un golpe. Invece la giunta militare, con Pinochet che si impone come lìder, attua un lungo progetto di trasformazione della società cilena in cui promette in un tempo indeterminato, indefinito, un ritorno a una situazione democratica, ma in realtà mantiene il potere. 

 

Cosa ha comportato per il Cile il regime di Pinochet?

I militari portano avanti un progetto di trasformazione della società cilena che in un certo senso segue il cammino opposto a quello che aveva iniziato Allende. Introducono piani di privatizzazione di tutti i settori e di tutti i servizi, basandosi sulle teorie neoliberiste e applicando un progetto che, al di là dei giudizi che uno possa avere a livello politico, riescono a portare avanti con efficienza, ottenendo alcuni risultati a livello economico anche positivi. Questo gli permette di beneficiare di un forte consenso di quei settori importanti della popolazione cilena che avevano già appoggiato il colpo di stato, e garantisce al regime di tenere una vita più lunga. Per questo, sotto molti aspetti, è una dittatura che ha successo, che impone il suo piano.

Va un po’ capito tutto questo per avere un’idea di come la dittatura cilena è riuscita a imporre sotto molti aspetti e condizioni diverse, anche quello che possiamo definire la politica della memoria che esiste oggi in Cile rispetto alla repressione. Cioè, Pinochet è morto nel suo letto, con la sua Costituzione, con una destra politica basata essenzialmente su le forze che avevano appoggiato dal regime, condizioni che sono molto differenti a quelle che ad esempio hanno caratterizzato il regime militare argentino. 

 

Da dove provengono queste differenze del caso cileno? 

C’è un aspetto che io penso sia importante e vada tenuto in conto, cioè il fatto che il caso cileno è stato molto più conosciuto all’estero rispetto alle altre dittature latino-americane, comprendendo l’Argentina, che in realtà è stata molto più repressiva. L’importanza, la visibilità, l’attenzione che il mondo della sinistra internazionale aveva prestato all’esperimento socialista del governo Allende rendono più visibile anche il colpo di Stato e il regime che è venuto dopo. Molte forze politiche, molti governi stranieri si sono interessati alla situazione cilena: più che in altri paesi, partiti socialisti e comunisti progressisti in tutto il mondo hanno appoggiato la solidarietà con il Cile, hanno sostenuto l’esilio in molti paesi dei politici cileni dell’opposizione, che hanno potuto contare su queste reti.  Alla fine la stessa amministrazione statunitense con Reagan, nella seconda metà degli anni Ottanta, ha avuto un peso importante quando si è trattato di imporre una uscita dal regime per il Cile, si sono imposti anche allo stesso Pinochet e in un certo senso hanno collaborato con una parte delle opposizioni che per far sì che fosse possibile un piano che in spagnolo si direbbe di “transicion pactada”, concordata, un po’ basandosi sul modello di quello che è successo in Spagna negli anni ‘70.

 

Nel 1988 iI popolo cileno vota “No” al plebiscito e Pinochet da presidente diventa senatore a vita. Come si inizia da quel momento a fare i conti con il passato?

In Cile la politica della memoria e della giustizia è stata fatta come ha detto il primo presidente Democratico dopo la dittatura, Patricio Aylwin, democristiano: “En la medida de lo posible”, nella misura di quanto è possibile, cioè: dobbiamo in qualche modo tenere in conto che Pinochet e la sua gente sono ancora lì e possiamo fare solo alcune cose. Vengono istituite commissioni che hanno indagato sui desaparecidos, producendo cifre che parlano di un totale di 40mila vittime, considerando gli scomparsi, i torturati etc, e un numero di 3-4mila uccisi. Sono abbastanza discutibili come numeri. ci sono fino opinioni molto diverse su su questo aspetto… una situazione un po’ paradossale durante molti anni All’estero si parlava di 100mila morti cileni insieme perché c’era una forte pressione anti-Pinochet, adesso permane questo problema di numeri che comunque sembrano troppo piccoli rispetto alla realtà di quello che probabilmente è successo, soprattutto nei primi anni.

 

Che caratteristiche aveva la macchina repressiva cilena?

Si è trattato di una dittatura molto repressiva, soprattutto nei primi anni, quando funzionava la Dina, la polizia politica del regime che collaborò con altre dittature latino-americane nel contesto dell’operazione Condor, un apparato che è responsabile anche di uccisioni di oppositori politici importanti all’estero, fra cui lo stesso Prats che viene ucciso a Buenos Aires, dove era esiliato. 

La dittatura è durata di 17 anni e la repressione è passata per fasi diverse: c’è stato un primo momento in cui si in cui sono sorti i campi di prigionia, i campi di tortura, azioni per neutralizzare gli oppositori all’estero… sono arrivati fino a Roma, con l’attentato a Bernardo Leiton, un politico democristiano delle opposizioni, che è sopravvissuto. Quella è stata la fase la fase in cui il protagonista è Manuel Contreras, “El Mamo”, il capo della Dina, ed è la fase più repressiva. 

Successivamente c’è stata una trasformazione, la Dina ha cambiato nome, e la dittatura sotto una serie di forti pressioni internazionali ha dovuto un po’ allargare le maglie della repressione, anche con una certa apertura ai partiti di opposizione e ai mass media, pensati più che altro per dimostrare agli osservatori internazionali che in fondo non erano così cattivi come apparivano. Questa è la situazione cilena, e quello che va capito per spiegare come in Cile fino al giorno d’oggi la giustizia è stata limitata, è stata relativa. Uno potrebbe in un certo senso paragonare il caso cileno più al caso spagnolo che a quello argentino o di altri paesi latino-americani perché i figli della dittatura sono lì, sono parte integrante del sistema e c’è una battaglia una discussione costante tra le due parti rispetto a quale deve essere la memoria condivisa, se è possibile avercela una memoria condivisa su quel passato. 

 

Come è stata cambiata la società civile cilena dall’esperienza della dittatura?

L’ha cambiata totalmente. Il Cile di oggi è figlio di quella trasformazione progettata e porta avanti con la collaborazione di civili che sapevano cosa volevano, è un paese in cui tutto è stato privatizzato, un modello che ha portato crescita e la società dei consumi a portata di mano di molti cileni, che è la base del consenso che hanno avuto, ma che allo stesso tempo ha creato anche una società molto competitiva e profondamente ingiusta, in cui le garanzie sociali sono molto molto limitate. Che si parli di pensioni, sanità, educazione: è stato messo tutto nelle mani del mercato, per cui quelli che in altri paesi d’Europa o d’America latina sono diritti, qui non esistono, semplicemente. Penso anche che quel progetto sia riuscito a cambiare la mentalità della gente, a far sì che la gente, perlomeno fino a qualche tempo fa, accettasse come un dato di fatto, come la normalità, quel sistema e quel tipo di società.

 

E nel Cile di oggi, che tipo di idea resiste sulla dittatura?

Ci sono anche oggi gli estimatori di Pinochet e di quel passato, non è che manchino, ma penso molto sia cambiato dopo l’episodio dell’arresto a Londra e soprattutto dopo lo scandalo dei conti bancari che aveva all’estero. Adesso c’è un appoggio meno militante all’immagine di Pinochet in Cile, penso minore rispetto a quello che esisteva 10-15 anni fa. Continua ad essere molto forte in alcuni settori del paese, per esempio qui a Santiago ci sono le zone più abbienti dove la destra “pinochetista” rimane ancora molto potente nonostante tutto, con un ruolo egemonico.  È un ostacolo importante perché si possa fare un tipo di memoria differente: sono state fatte molte cose, però non è sufficiente.

Quello che sta succedendo in Cile negli ultimi due anni può essere leggibile come la volontà della maggioranza della popolazione cilena di farla finita con quella che è l’eredità della dittatura, iniziare una storia nuova e far sì che il Cile futuro non sia quello che aveva immaginato Pinochet con la sua Costituzione, con il suo progetto sociale. La situazione è molto complicata, anche perché c’è la crisi politica dei partiti di destra e di sinistra, che rende lo scenario molto incerto e forse poco prevedibile.