Claudio Di Benedetto

Intervista a – Di Benedetto
Scritto da Alfredo Sprovieri. Riprese di Gianluca Palma, montaggio di Marco Mastrandrea

Claudio Di Benedetto, proprio come faceva il padre a Buenos Aires, restaura mobili antichi a Castrovillari, sulle pendici del Pollino. “Sparate su di me, ma nessuno tocchi i lavoratori”, in questa zona della Calabria, molti anni prima, riecheggia ancora questo motto di Filippo Di Benedetto, che finì nelle carceri fasciste per via della sua militanza politica. Poi partì per l’Argentina e, ben presto eletto rappresentante sindacale degli emigrati italiani, si spese per salvare dalle grinfie del regime centinaia e centinaia di connazionali. Era un mestiere duro e pericoloso, e insieme alle tante persone aiutate, bisognava mettere in conto che per molti non c’era più niente da fare. Fra loro c’era suo nipote, si chiamava Eduardo: è tuttora desaparecido.

Quale percorso di vita ti porta qui in Italia?

Perché ho vinto una borsa di studio – sempre nel mio campo, il restauro del mobile – e ho fatto un corso di perfezionamento in Brianza. Dopo sono rientrato in Calabria perché i miei parenti erano tutti qui, così decisi di rimanere, un po’ per provare a svolgere la mia attività in Italia, un po’ perché la Calabria a me era molto familiare. Mio padre, infatti, veniva due o tre volte all’anno in Italia, portava in Argentina i prodotti locali della Calabria e parlava in dialetto calabrese, perciò, qui era tutto familiare e mi colpì della Calabria la natura: 10 minuti il mare, 10 minuti la montagna… tutto vicino, mentre in Argentina abbiamo delle lunghe distanze difficili da coprire, e un brutto clima. Soprattutto a Buenos Aires.

Chi era tuo padre, Filippo Di Benedetto?

Era un artigiano, ma la sua vocazione fu la politica.

Da quali radici nasce l’impegno di tuo padre?

Le prime lotte sindacali antifasciste nel comprensorio del Pollino le aveva organizzate lui insieme ad altri compagni. Per questo fu arrestato, torturato dai fascisti e poi rinchiuso nel carcere di Castrovillari fino alla fine della caduta del fascismo. Poi nelle prime elezioni democratiche del 1947 viene eletto sindaco di Saracena, diventando così il primo sindaco comunista eletto democraticamente nel dopoguerra nel comprensorio del Pollino. Ancora oggi alcuni anziani rimasti a Saracena si ricordano con affetto di lui, per l’altruismo dimostrato ai suoi concittadini. 

Poi arriva la scelta dell’emigrazione.

Sì, non può vedere il suo comune indebitato, e così decide di emigrare in Argentina. Due anni prima era emigrato il fratello Orlando e Filippo tenta di raggiungerlo con l’intenzione di fare soldi, rientrare contribuire a saldare il debito del Comune. Filippo voleva rientrare: prova ne che non si è dimesso da sindaco, ma ha lasciato in delega al vicesindaco. Questo è il motivo perché Filippo partì in Argentina… dopo la vita volle che le circostanze, le lunghe distanze, le peripezie del viaggio etc… hanno fatto sì che Filippo rimanesse in Argentina. 

Qual è stato il suo impegno in Argentina?

Emigrato in Argentina negli anni 50, si dedica con tutte le sue forze ad aiutare la collettività calabrese di Buenos Aires, aiutandoli a difendere i propri interessi e i propri diritti. Così fonda, insieme ad altri compagni, la associazione calabrese di Buenos Aires, che fu una delle più grandi e numerose come soci al mondo dei calabresi all’estero. Fondano anche la commissione delle comunità straniere di Buenos Aires, e in una di queste riunioni negli anni ‘50 per rivendicare i diritti degli stranieri viene arrestato insieme altri due compagni: gli altri compagni che erano rimasti fuori sollecitano al governo italiano di liberare Filippo e a questi altri due compagni, però poi fu in realtà la CGIL che fa leva sul governo argentino per liberare a Filippo e i suoi compagni, e da lì parte la collaborazione di Filippo con la CGIL. Negli anni successivi la CGIL, attraverso il Partito Comunista Italiano, lo nomina responsabile del patronato INCA CGIL di Buenos Aires e subito dopo presidente della FILEF (Federazione Italiana lavoratori emigrati all’estero).

Cosa scelse di fare, una volta esploso il golpe militare?

Filippo venne eletto nel 1975, un anno prima del famigerato colpo di stato militare. Un giorno nel suo ufficio incominciarono ad arrivare alcuni genitori di origine italiana raccontando che alcuni dei loro figli erano stati rapiti e non avevano avuto più notizie di loro, così Filippo, immediatamente, va a chiedere spiegazioni sia all’ambasciata che al consolato italiano di Buenos Aires. Filippo sia in uno che nell’altro era conosciuto, però da parte delle autorità italiane bocche cucite: nessuna informazione. Questo fa capire la complicità del governo italiano con quella giunta militare, ma l’unica autorità, l’unica persona che si mise in ascolto e si è messo immediatamente a disposizione di Filippo fu il console Enrico Calamai. Così, decisero insieme di aiutare vite umane, salvando centinaia e centinaia di persone da morte sicura; aiutandoli a espatriare anche con passaporti falsi, nascondendo molti di loro in luoghi sicuri e denunciando alle autorità italiane quello che stava succedendo. Io mi ricordo che Calamai molte volte diceva: ‘Filippo, non ti esporre in questo modo… io sono un console, ho l’immunità, ho la scorta, ma tu non hai nessuno che ti protegge. Così metti a repentaglio la tua vita e quella della tua famiglia’. Ma Filippo continuò a salvare vite umane.

Cosa vi raccontava in famiglia?   

Anche per le circostanze politiche che abbiamo vissuto noi, non ha mai voluto far entrare la famiglia in mezzo, ha cercato sempre di lasciarla fuori, di non mischiare le cose. Raccontava poco nulla di quello che faceva; noi vedevamo i suoi movimenti, capivamo quando c’era o non c’erano problemi, però non direttamente da lui. Ce lo diceva qualche amico, però lui direttamente cercava sempre di lasciarci da parte. 

Invece a un certo punto la tua famiglia viene coinvolta, vuoi raccontarci come?

Abbiamo avuto la sparizione di Edoardo Czainick, il marito di mia cugina Domenica (rapita, torturata barbaramente, ma poi rilasciata, ndr). Eduardo militava nell’Erp, e un anno dopo dal colpo di stato militare, mentre lasciava i suoi due figli davanti al cancello della scuola materna tre persone lo prelevarono e non abbiamo avuto più notizie di lui. Filippo ha cercato in tutti i modi di chiedere informazioni, ha fatto venire perfino un avvocato da Roma, però non abbiamo avuto mai notizie più di Eduardo.

Cosa significa per te vedere oggi che proprio dall’Italia sta arrivando giustizia?

Ah, una grande soddisfazione. Per tanti anni penso che anche qui abbiano cercato di nascondere, poca gente s’è interessata a questa storia, per diversi interessi, per problemi che fanno parte di molte dinamiche, che appartengono a molti personaggi della vecchia classe dirigente. Ora le nuove generazioni stanno cercando di capire, di conoscere quello che era successo in Argentina, con l’Italia il legame che c’era è rimasto molto grande e allora questo aiuterà senz’altro a scoprire tutto. Ma penso soprattutto che questo debba servire alla memoria, perché non succeda mai più.