Il Processo Condor – Intervista a Giancarlo Capaldo

Il Processo Condor
Intervista a – Giancarlo Capaldo
scritta da Alfredo Sprovieri, video di Marco Mastrandrea

Magistrato ora in pensione, Giancarlo Capaldo è stato responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica e responsabile del pool antiterrorismo. Ha condotto alcune delle inchieste più importanti degli ultimi anni, dall’ingresso del leader curdo Öcalan in Italia ai crimini contro l’umanità di Pinochet, da Lady ASL a Emanuela Orlandi, dal caso Marrazzo alla P3, da Fastweb-Telecom a Finmeccanica, dal recupero della Tavola Doria di Leonardo al caso dei due Marò in India. Il 9 luglio 1999 aprì un’inchiesta durata circa 15 anni sui crimini commessi in America latina durante le dittature militari che ha prodotto 146 mandati di arresto contro militari e torturatori del Cono Sud. Da questa indagine è scaturito quello che è passato alla storia come “Processo Condor”. 

 

Perché questo processo è stato diverso dagli altri, e perché è stato denominato “Condor”?

La filosofia del processo italiano è unica rispetto ai vari processi che si sono svolti anche negli altri paesi del mondo e rispetto anche ai processi che si sono svolti in precedenza Italia, perché prima i processi riguardavano la scomparsa dei singoli personaggi, cittadini italiani, per un fatto particolare e quindi la condanna eventuale dei torturatori che avevano avuto un diretto impatto col soggetto scomparso, con la vittima. Il processo italiano invece si pone un problema diverso: per la prima volta mette in luce tutte le vicende come articolazioni del progetto Condor. Infatti quello italiano è chiamato “Processo Condor” perché è il primo processo che mette in luce il Piano Condor, quindi il Piano Condor significa mettere in relazione tutte le vicende di tutto il Cono Sud perché erano vicende che interagivano tra loro, perché nascevano da questo accordo criminoso, chiamato Piano Condor, avvenuto nel 1975 in Cile, con il quale i vari paesi, otto paesi del Cono Sud, si erano accordati per darsi un aiuto reciproco sottobanco – cioè non un aiuto che seguiva le convenzioni internazionali i rapporti estradizionali… ma un aiuto reciproco sottobanco tra le vare polizie e i servizi di sicurezza per far sì che se il servizio cileno voleva fare arrestare in Argentina o Uruguay una decina di persone era sufficiente che alzasse il telefono  e che disse dei nomi telefonicamente al suo parigrado nell’esercito o nei servizi dell’altro paese e queste persone soltanto perché indicate nominativamente arrestate clandestinamente chiuse nei centri di detenzione clandestina e uccisi.

Come avete fatto a ricostruire le responsabilità per centinaia di indagati?

Naturalmente la visione d’impostazione filosofica del Processo Condor quindi nasce per legare tutte insieme le storie, tutte insieme le responsabilità di tutte le giunte militari per le singole scomparse e naturalmente cominciando dagli alti gradi delle giunte per proseguire agli alti gradi dei servizi o delle forze armate, e per proseguire anche agli specifici gradi di coloro che avevano ricoperto dei ruoli nei reggimenti che avevano operato quelle singole operazioni o che erano state coinvolte nelle torture nei centri clandestini.  Quindi, dai generali che comandavano le giunte militari, fino ai capi reggimento, ai capi di sezione delle torture. Evidentemente nel momento storico in cui noi abbiamo iniziato a fare le indagini, molti dei responsabili delle giunte militari avevano un’età molto avanzata e piano piano nella storia sono poi deceduti perché la natura fa il suo corso. Naturalmente persone più giovani, che quindi ricoprivano dei gradi minori ma che erano tasselli importanti di quei gangli, come Troccoli è un tassello importante del contrasto in Uruguay, ci siamo ritrovati quindi dagli alti gradi fino a persone che avevano delle responsabilità specifiche, non erano persone che passavano di caso qualche volta da lì, in una caserma dove si facevano cose poco buone, erano delle persone, come nel caso di Troccoli, che avevano responsabilità specifiche che venivano eseguite.

L’ex militare Troccoli è stato l’unico giudicato in aula durante il processo, perché era in Italia?

Troccoli, da quello che ricordo, è venuto in Italia, perché lui viveva e ottimamente in Uruguay, perché in Uruguay, attraverso quei meccanismi di cui parlavo prima, perché in Uruguay erano iniziati dei processi contro le giunte militari e quindi anche contro di lui. Processi che avevano dato origine a degli arresti di persone che erano dei colleghi, dei commilitoni di Troccoli in Uruguay. A quel punto Troccoli si è ricordato di avere la cittadinanza italiana e quindi è espatriato per sfuggire alla giustizia uruguaiana, è espatriato in Italia perché era cittadino italiano. Anche perché come cittadino italiano non poteva essere estradato in Uruguay, tanto è vero che l’Uruguay ha richiesto l’estradizione di Troccoli per procedere in Uruguay contro Troccoli ma era cittadino italiano e la Cassazione ha detto: non può essere estradato. Per cui la scelta di vivere in Italia di Troccoli ritengo che nasca da lì, dalla volontà di sottrarsi alla giustizia uruguaiana che era una giustizia anche sicuramente più informata di quella italiana su quelle vicende del centro delle forze armate della marina a cui apparteneva Troccoli. E quindi evitare quella giustizia che sarebbe arrivata contro di lui e salvarsi. Naturalmente deve rimanere in Italia, perché se va fuori dall’Italia l’Uruguay può estradarlo dagli altri paesi europei o extraeuropei dove Troccoli potrebbe recarsi e quindi il problema di Troccoli è che si è ricordato di essere italiano per salvarsi. 

Questo tipo di indagini incontrano ostacoli nei diversi sistemi giuridici fra i diversi stati, c’è una strada per superarli?

Un sistema giuridico ci sarebbe e ci sarebbe stato anche per quanto riguarda l’Italia. Teniamo conto, per esempio, l’approccio diverso che ho avuto nel processo che ho svolto rispetto a quello di Garzon in Spagna. Garzon in Spagna ha avuto la possibilità di attivare la giustizia spagnola per tutti i casi, non soltanto su quelli che colpivano i cittadini spagnoli soltanto. Perché la Spagna come paese ha firmato la convenzione sulla giurisdizione universale per quanto riguarda i delitti contro l’umanità, l’Italia no. Noi infatti abbiamo potuto agire soltanto in confronto alle vittime italiane. L’Italia dovrebbe e tutti i paesi dovrebbero ritenere l’affermazione della giurisdizione universale per alcuni reati che colpiscono i crimini contro l’umanità. Probabilmente la difficoltà per questo qual è: la difficoltà per questo è che non tutti i paesi si fidano della giustizia degli altri paesi. Perché la giustizia è uno strumento molto delicato, non sempre fa giustizia, scusate il disturbo delle parole. È possibile usare uno strumento di giurisdizione universale per perseguire teoricamente anche, non so, il presidente della Francia o la regina d’Inghilterra potrebbero essere perseguitati da una giurisdizione universale usata un po’ per vendetta. Così come noi procediamo nei confronti delle giunte sudamericane, teoricamente il giudice sudamericano, sottoposto spesso ai governi sudamericani, potrebbe agire contro il nostro presidente del Consiglio per questo, quindi: la giurisdizione universale sconta un problema di cultura giuridica complessiva che non è facilmente risolvibile. Credo che la storia dovrebbe portare in questa direzione, per l’affermazione della giurisdizione universale, anche per un altro motivo: perché così i dittatori non si sentirebbero mai sicuri; perché ogni dittatore, in realtà, si sente al sicuro nel suo paese. Se pensa di essere comunque essere messo sotto schiaffo in un momento storico in un altro paese, nascerebbe l’esigenza di una etica politica diversa.