Julio Santucho

Intervista a – Julio Santucho
scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Erica Canepa

Julio Santucho dopo la laurea in teologia all’Universidad Católica Argentina si laurea in filosofia all’Università Lateranense di Roma. Tra il 1968 e il 1982 in Argentina è stato membro del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (PRT) e formatore di quadri dell’Esercito Rivoluzionario Popolare (ERP), due organizzazioni create e dirette dal più famoso dei suoi fratelli, Roby Santucho, uno dei leader più influenti della sinistra rivoluzionaria sudamericana. Nel 1976 Julio partì per l’Europa in cerca di aiuti internazionali per il partito, ma per via del colpo di stato del 24 marzo rimase in esilio in Italia fino al 1993. Docente di letteratura ispano-americana all’Università della Calabria, dopo il rientro dall’esilio in Italia, ha fondato a Buenos Aires l’Instituto Multimedia DerHumALC, ente organizzatore del “Festival Internacional de Cine y Video de Derechos Humanos en América Latina y el Caribe”. Nel frattempo, in Argentina, pezzo dopo pezzo la famiglia Santucho era stata sterminata dal regime militare. A luglio del 1976 in pochi giorni venivano rapite la sorella Manuela Santucho e sua moglie Cristina Navajas, poi ucciso il fratello Roby in un raid nel quale i militari sequestrano la cognata Liliana Delfino e gli italiani Domenico Menna e Ana Maria Lanzillotto. Nell’ottobre 2016 è stato ritrovato Maximiliano, il figlio che Ana Maria aveva partorito in un campo di prigionia e che le era stato sottratto prima dell’uccisione, anche per Liliana e Cristina, entrambe in attesa al momento del rapimento, si è sempre sospettato lo stesso trattamento, ma il terzo figlio o la terza figlia di Julio Santucho non è mai stata ritrovata.   

 

Qual è la storia del suo impegno politico in Argentina?

Mio fratello era Mario Roberto Santucho, il fondatore del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (Prt) in Argentina e dell’Esercito rivoluzionario del popolo (Erp), le principali organizzazioni della guerriglia marxista in Argentina negli anni Sessanta e Settanta. La nostra famiglia è stata molto perseguitata, i miei genitori hanno subito undici perquisizioni e mio padre ha dormito in commissariato diverse volte, anche perché molti dei miei fratelli erano anche militanti del partito. Anche io sono stato militante, perché ho partecipato negli anni dal ‘69 al ‘76 sei alle attività del partito in Argentina. Non ho avuto partecipazioni in azioni militari, ma in quello che noi chiamavamo “lavori di massa”. Si svolgevano in fabbrica e nei quartieri popolari, e nel periodo ‘71-‘73 ho anche organizzato comitati di base, che erano organizzazioni aperte, semi legali, del partito: si faceva attività legale, attività culturale, tipo la vendita del periodico, il cinema, il teatro, eccetera… Dopo il 73 è cominciata la repressione più dura con l’inizio della organizzazione paramilitare che aveva organizzato il governo di Peron. Fino al settembre ‘73 io lavoravo anche in una compagnia di assicurazioni con il mio nome legale, però da quel momento in poi il partito è stato illegalizzato, è stato reso obbligato alla clandestinità e naturalmente con il mio cognome non potevo continuare a fare attività legali, così sono stato inviato a lavorare nelle scuole del partito. Erano scuole politiche dove si studiava per 15 giorni con concentrazione totale, senza mai uscire. Si lavorava tutto il giorno: studio della teoria marxista, anti-leninismo storico dialettico, economia politica, storia delle rivoluzioni, storia dell’Argentina storia e strategia del partito. Erano corsi molto intensi, ma anche molto interessanti, i compagni uscivano pieni di entusiasmo e da quel punto di vista era molto gratificante. 

 

Quando iniziò a cambiare questa situazione? 

Quando mi sono spostato con Cristina Navajas ho avuto due figli: il primo nel settembre del ’73, il secondo ottobre del ’75. A fine del ‘75 ci fu l’assalto alla caserma di Monte Chingolo, una delle più importanti in Argentina. Era un tentativo del partito per frenare o quantomeno posticipare il colpo di stato e allo stesso tempo per prendere le armi e resistere nelle montagne. Il tentativo falli perché c’era una spia all’interno del partito che aveva dato elementi alle forze armate per prepararsi per questo attacco. Naturalmente dopo questa sconfitta la situazione cambia molto e praticamente il partito entra in recessione si sospendono le attività militari e politiche: bisognava fare una ricostruzione. La scuola del partito non si faceva nemmeno più perciò, perciò nei primi mesi del 76 sono stato incorporato al Comitato centrale del partito e sono stato inviato all’estero, in Europa, a organizzare i lavori internazionale del partito. Così nel giugno del ‘76 sono arrivato a Roma, proprio il 14 di giugno vigilia delle elezioni in cui il Partito Comunista Italiano riuscì quasi a fare il sorpasso sulla Democrazia Cristiana. Per me è stato molto emozionante, straordinario, vedere tutte queste bandiere rosse, milioni di persone in strada, mentre in Argentina non si potevano incontrare due persone senza rischiare la prigione. 

 

Mentre era in Italia, in Argentina esplodeva il golpe: come scoprì cosa stava succedendo?

Ho incontrato Lelio Basso e Linda Bimbi e mi hanno invitato alla conferenza dei diritti dei popoli che si faceva in Algeria dalla fine di giugno ai primi di luglio. Quella è stata una conferenza bellissima, molto importante, con un manifesto dei diritti dei popoli che riguardava i diritti, gli interessi, dei popoli del terzo mondo, dei popoli oppressi: è stata veramente un’esperienza molto importante, emozionante, ma quando torno a Roma, il 14 luglio, chiamo al telefono a Buenos Aires – perché dall’Algeria non avevo potuto sentire mia suocera, non potevo chiamare nessuno in Argentina da lì perché le telefonate erano controllate e non si poteva chiamare da uno dei paesi socialisti allora-  e mia suocera mi dice che la sera prima mia moglie Cristina, mia sorella Manuela e un’altra compagna che camminava con loro erano state sequestrate. Naturalmente ho cercato di organizzare quello che si poteva fare: la denuncia, la stampa, gli organismi internazionali; ma purtroppo, come è successo con tanti altri in Argentina, non si è riusciti mai a sapere il destino dei nostri cari. Non c’erano più le condizioni in Argentina per resistere alla repressione, la stessa settimana del 13 luglio sono state sequestrate mia sorella e mia moglie, ma il 19 luglio è stato ammazzato mio fratello Mario Roberto.  Una settimana terribile anche perché un altro fratello, Carlos, è stato sequestrato e assassinato in quei giorni. C’è un racconto molto duro di un sopravvissuto uruguaiano che era stato sequestrato insieme ad un gruppo di uruguaiani sequestrati in Argentina e inviati allo stesso campo di concentramento: ha visto con i suoi occhi come a mio fratello Carlos lo hanno assassinato davanti a tutti, facendolo affogare in continue immersioni in una piscina. Sapevano che lui non era un militante, ma aveva quel cognome e la famiglia Santucho doveva essere sterminata, questo era il senso della repressione.

 

Cosa ha deciso di fare dopo questa tragedia?

Dopodiché io ho parlato con un compagno alla direzione del partito a Roma, chiedendogli di tornare in Argentina per recuperare i miei figli, perché quella era la promessa che avevo fatto alla mia Cristina prima di lasciare l’Argentina. Mi ha detto: “Se succede qualcosa, l’unica cosa che ti chiedo è porta con te i nostri figli, non lasciarli a mia madre o a tua madre o altri compagni, ma ti chiedo di portarli con te”. Naturalmente dissi di sì… “ma tanto non succederà niente, sono molti anni che stiamo lavorando in clandestinità, non ci succederà niente”, ma lei diceva: “No, ora è diverso”.  Aveva ragione, la situazione era molto più grave nel ’76.  La direzione, comunque, mi ha detto che non era possibile, che non potevo rientrare in Argentina, però loro avrebbero organizzato una missione. Così hanno scelto una ragazza Argentina che era andata in Italia A 18 anni con i suoi genitori – una ragazza pulita, che non avesse nessun tipo di precedente sovversivo in Argentina, quindi libera da ogni sospetto – questa compagnia è venuta in Argentina e ha dovuto fare un lavoro di convincimento con mia suocera che è durato un paio di mesi. In realtà anche col mio figlio più grande che aveva tre anni e mezzo e all’inizio non voleva sapere niente di lasciare la nonna, perché era l’unica cosa sicura. Finalmente poi è riuscita a convincere a mia suocera e a Camillo ed è uscita con documenti falsi, accompagnata da un altro uomo come se fossero una famiglia con due figli. Sono usciti dal Brasile, poi dal Brasile hanno preso un aereo per la Francia e io sono andato naturalmente da aspettarli all’aeroporto Charles de Gaulle. 

 

Cosa ha raccontato ai suoi figli di tutto ciò che era successo?

La prima cosa che ho fatto e prendere da parte Camillo che aveva quindi tre anni e mezzo – e quindi Miguel, il secondo figlio, invece aveva un anno, un anno e mezzo – e gli ho detto: “Guarda Camillo tua madre l’hanno sequestrata ai militari e non sappiamo dov’è”. Lui mi ha risposto: “Ah, non mi aveva abbandonato quindi”. Povero Camillo, pensava che la madre e c he quindi anche il padre, perché io non c’ero, l’avessero abbandonato… ma per fortuna gli ho detto la verità, perché è successo che molte famiglie non hanno detto la verità ai figli su questa situazione dei genitori e allora quelli hanno pensato davvero che li avessero abbandonati… io credo che la verità sia la soluzione giusta per queste situazioni così drammatiche e tragiche.

 

Cosa è cambiata la sua vita una volta recuperata parte della famiglia?

Da quel momento io l’unica cosa che ho potuto fare è viaggiare, dovevo viaggiare molto per lavoro e lo facevo. Allora ho portato i miei figli a Cuba dove c’erano i miei genitori, esiliati. Sono andato a trovarli perché loro hanno sofferto molto la morte dei figli. Ho lasciato i ragazzi con loro, in modo che potessero andare a scuola lì, dove la situazione era tranquilla e sono tornato in Italia. Lì la direzione del partito mi chiede di organizzare le scuole politiche anche in Italia, e lo faccio.  Abbiamo ricevuto la solidarietà di tanti, l’aula era piena di roba tutti i giorni, a pranzo il sindacato della fabbrica ci mandava il pranzo per 25 persone, le cooperative agricole ci davano il vino, la verdura, insomma: eravamo ospiti d’onore della città di Sarzana. Lo stesso è successo in altri posti, perché poi ho fatto un’altra scuola a Farigliano in Piemonte, al Lago di Garda e la ultima poi a Ivrea. Tutte esperienze straordinarie, a Ivrea il Partito Comunista ci consegnò una villa con giardino, era una situazione straordinaria. Poi il partito aveva deciso di riunire tutti i compagni dispersi per il mondo in Messico, così che alla fine dell’Ottanta abbiamo cominciato a organizzarci per tornare in America Latina. Abbiamo costruito e organizzato delle scuole di partito e li abbiamo avuto anche problemi, perché ci sono stati divisioni all’interno del partito e un gruppo ha fatto anche un sequestro in Messico, cosa che noi in Italia non abbiamo fatto, qui la nostra attività era tutta legale. Siamo comunque finiti in prigione: Roberto Guevara, fratello del “Che”, e io. Beh, sono stati pochi mesi, ma abbiamo dimostrato la nostra estraneità ai fatti e abbiamo avuto l’opportunità di rientrare in Italia. Abbiamo avuto anche un incontro con il Ministro dell’Interno del Messico che ci disse che le porte del Messico sarebbero state aperte se volevamo rientrare, e infatti io dopo pochi anni sono tornato in Messico e quella è stata l’ultima esperienza col partito.

 

Cosa ha fatto dopo, è riuscito a ritrovare una qualche forma di normalità?

Dopo io ho continuato in Italia diciamo la mia attività professionale perché ho cominciato a lavorare all’università, prima all’Università di Cosenza dopo anche alla CGIL, son rimasto insomma fino al ’93.  Tutto questo periodo in Italia con la mia famiglia, con i bambini piccoli, perché non c’erano le condizioni per rientrare in Argentina, ma anche perché comunque abbiamo trovato anche la solidarietà del popolo italiano per quello che ci è successo. Io ho preparato un quadro delle vittime della nostra famiglia: sono sei morti, quattro scomparsi, sequestrati due, altri due in prigione…: in totale sono 17 membri della famiglia tra morti, sequestrati e imprigionati.